Dalla prefazione di Giovanni Gentile all'Autobiografia di Gandhi.
Da "Ritrovare Dio", scritti sulla religione di G. Gentile, a cura di H. A. Cavalleria, Edizioni Mediterranee, 2021, “XII. L'AUTOBIOGRAFIA DI GANDHI”*
* G. GENTILE, Frammenti di storia della filosofia, a cura di H.A. Cavallera, tomo I, p. 340-351. Già pubblicato come prefazione a MAHATMA GANDHI, Autobiografia, a cura di C.F. Andrews, Treves, Milano 1931.
Nel leggere questa Autobiografia, conviene por mente a ciò che è detto nella prefazione inglese: che cioè essa non è opera originale di Gandhi, ma compilazione del signor C.F. Andrews, inglese, amico dell'autore e suo fervente seguace, del quale si parla nel corso del libro. Questi trasse la narrazione da due opere autobiografiche scritte dal maestro nella sua lingua materna, il gujarati, e da altri tradotte in inglese: una delle quali molto voluminosa. E abbreviò molto le sue fonti, tralasciando tutte le parti che gli parvero di minore interesse. Donde quel che di slegato e di lacunoso che il lettore potrà notare qua e là nel testo che gli è presentato; e che, d'altra parte, essendo passato attraverso una duplice traduzione, può far desiderare nel racconto quel tono di perfetta immediatezza che è una delle attrattive maggiori degli scritti autobiografici; quantunque siano pur frequenti le pagine in cui l'animo dello scrittore si esprime in tutta la commovente semplicità del suo sentimento profondo. La brevità, per altro, e la rapidità per lettori europei sono un vantaggio a paragone del fare analitico, insistente e particolareggiato, che dà impressione di faticosa prolissità nei libri dell'India.
E poi la vita di Gandhi, evidentemente, non è
scritta per interessare il lettore alla storia di un'anima o alle avventure di
un uomo che ha vissuto intensamente e lottato e agito su milioni di uomini. La
personalità dello scrittore entra nel libro come un carattere ideale, il cui
svolgimento è la formazione d'una dottrina di vita; i casi esteriori sono
appena accennati per quel tanto che era necessario a dare come lo scheletro del
corpo, che l'autore voleva rappresentare nel suo movimento e nella sua vita.
Il Gandhi non è uno scrittore d'arte. Giornalista o
autore, scrive per l'attuazione del suo programma pratico; e i suoi scritti
sono azioni. Azioni di propaganda, come egli intende la sua propaganda:
politica che è religione, e religione che è vita morale, formazione di sé,
perfezionamento della propria volontà, purificazione dello spirito e via alla
fratellanza universale.
Giacché per tutti gli scrittori lo scrivere
un'autobiografia è sempre un recare un nuovo contributo alla realizzazione del
proprio ideale di vita. E secondo che questo ideale è artistico o filosofico,
teorico o pratico o religioso, il racconto della propria vita è un
esemplificazione e incarnazione di quel determinato ideale, di cui l'artista si
serve a spiegar meglio la propria estetica, il filosofo a dimostrare nella loro
genesi razionale i propri concetti fondamentali, l'apostolo d'una fede
religiosa la verità in atto del suo credo, l'uomo d'azione la necessità della
propria condotta. E in verità che altro ogni uomo grande può trovare di
interessante nella propria vita se non quello appunto che ne costituisce a'
suoi stessi occhi il valore?
Gandhi ci dice esplicitamente nell'ultimo capitolo
di questo libro (che egli intitola Storia
delle mie esperienze con la verità) nel congedarsi «non senza rammarico»
dai lettori:
«lo do un grande valore a queste esperienze, ma non
so se sono stato capace di descriverle adeguatamente. Posso dire solo che ho
fatto tutto il possibile perché la mia narrazione fosse fedele. Ho compiuto uno
sforzo incessante per arrivare a descrivere la Verità quale è apparsa a me e
nel modo esatto in cui io l'ho raggiunta. Questo esercizio mi ha dato
un'ineffabile pace mentale, perché ho la grande speranza di recare la fede
nella Verità e nell'Ahimsa ai
dubbiosi.
L'esperienza mi ha insegnato che non vi è altro Dio
che la Verità. E se ogni pagina di questo libro non dimostra che il solo mezzo
per giungere alla Verità è nell'Ahimsa,
debbo concludere che tutta la fatica per scriverlo è stata vana».
Più chiaro di così non si poteva dire il perché di
questa autobiografia: giungere alla Verità attraverso l'Ahimsa: dottrina religiosa, che, ripeto, è una dottrina
etico-politica che ha esercitato una potente azione, come tutti sanno, in
India, dando un'anima e una volontà a moltitudini sterminate di uomini
destatisi al contatto di un governo europeo e della vita europea, a una nuova coscienza
di sé; ma che ha un universale valore umano. E questo costituisce l'alto pregio
di questo libro.
I casi personali dello scrittore perciò sono
ricordati in quanto servono a colorire il quadro, da cui deve risultare quel
sistema di esperienze che Gandhi mira a rappresentarci: a spiegare cioè la
formazione di quelle forze morali che sono per lui il segreto della vita. La
madre è ricordata per l'impressione più forte che essa gli ha lasciata: quella
della sua religiosità. Di una religiosità come Gandhi la concepisce, che impone
rinunzie e astinenze e s'impadronisce di tutto l'uomo e non lascia adito ad
arbitrio, per quanto possa sembrare ragionevole alla piccola ragione, al di là
della quale lo spirito religioso sa che ce n'è un'altra, grande, universale e,
in fine, la sola vera. «...Era profondamente devota e non avrebbe, per esempio,
potuto prendere i suoi pasti senza aver prima detto le preghiere
consuete... Per quanto io ritorni
indietro con la memoria, non posso ricordare che essa abbia mai mancato di
osservare un digiuno imposto dalla religione. A volte faceva i voti più duri e
li adempiva con fermezza; né le malattie erano pretesti per sottrarvisi. Mi
ricordo che una volta si ammalò mentre osservava un voto di digiuno, ma nemmeno
questo servì a farla rinunciare».
La ragione grande metteva a tacere la piccola; e
amava circondarsi di mistero, che colpiva di più la fantasia dei piccoli figli,
e faceva così penetrare più addentro nel cuore quella immagine viva di
devozione:
«... Altre volte invece faceva voto di non toccare
cibo se non vedeva il sole. Noi bambini in quei giorni stavamo a guardare il
cielo aspettando il momento di annunciare alla mamma L'apparire del sole. Nel
colmo della stagione delle piogge non di rado il sole non si lasciava vedere in
tutto il giorno; e mi ricordo di giornate nelle quali all'apparire improvviso
del sole dopo la pioggia noi correvamo a darne l'annuncio a nostra madre. Essa
usciva a vederlo con i propri occhi, ma nel frattempo quel fuggevole raggio era
di nuovo scomparso e la mamma rimaneva senza suo pasto.
Non importa - diceva allegramente - Dio non vuole
che quest'oggi mi nutra - e ritornava alle sue solite faccende».
La commozione del tenero ricordo filiale si scioglie
nel più vasto sentimento religioso. Il padre grandeggia ancor più, in alto,
maestro solenne di vita religiosamente concepita. Sublime il racconto della
prima confessione che Gandhi ricorda di aver fatta, appunto a lui, al Padre, di
un fatto commesso nel seno stesso della famiglia. Il pensiero di esso non gli
dava pace, e decide di confessarsene al Padre infermo, quantunque non gli
reggesse a ciò l'animo. «Non che temessi che egli mi potesse bastonare. Non
ricordo che mio padre abbia mai alzato la mano su uno di noi. No, temevo
piuttosto di dargli un dolore troppo grande». Infine si decide, quasi fin
d'allora fosse convinto dì una verità che oggi sente profondamente: non potervi
essere purificazione senza completa confessione e un sincero e forte dolore.
Dolore di chi? Di chi si confessa o di quegli a cui si confessa? Bisogna
rileggere il racconto mirabile: «Decisi di scrivere la mia confessione e di
presentarla a mio padre chiedendogli perdono; scrissi quello che dovevo dire in
una striscia di carta e la consegnai a mio padre. Non solo avevo esposto
sinceramente quello che avevo fatto, ma chiedevo anche una punizione adeguata.
La confessione finiva con una preghiera nella quale lo supplicavo di non punire
se stesso per il mio fallo e con la promessa formale che mai più avrei rubato.
Tremavo tutto, quando consegnai il foglio. Mio padre
soffriva allora di una fistola ed era costretto a letto.
Il suo letto consisteva in una nuda asse di legno.
Gli consegnai il foglio e mi sedetti di fronte a lui. Mentre leggeva, dagli
occhi gli cadevano copiose lagrime che bagnavano lo scritto. Per un momento
abbasso le palpebre meditando, poi stracciò il foglio. Si era seduto per
leggere. Si sdraiò di nuovo. Anch'io piangevo, vedendo la sua angoscia».
Gandhi conchiude che «quelle benefiche dolci lagrime
purificarono il suo cuore e lo lavarono dal peccato». Le lagrime di lui, ma
anche quelle del Padre, che nella sua angoscia faceva sentire al figlio la
potenza del suo amore. E perciò lo scrittore commenta che quella fu per lui
«una lezione positiva di Ahimsa».
Quella stessa Ahimsa che tanti anni
più tardi redimerà un suo discolo alunno facendogli sentire tutto il dolore che
per le sue mancanze provava egli stesso, Gandhi.
L'Ahimsa
sarà infatti uno dei punti fondamentali della dottrina di Gandhi. Non violenza,
amore; amore universale non solo per tutti gli uomini, ma per tutte le creature
che sentono e possono soffrire il dolore; e nelle quali il dolore di una è
dolore di tutte, solidalmente congiunte e fuse nello stesso sentire. Dottrina,
il cui germe era nella filosofia giainica e nelle stesse credenze religiose
della famiglia di Gandhi. Le quali perciò facevano divieto di mangiar carne. Un
cattivo compagno indusse per qualche tempo Gandhi fanciullo a cibarsene; ma con
quali sofferenze per lui, a dover nascondere il fatto ai genitori, e mentire!
Giacche uno dei germi deposti più nel profondo, nel suo animo, fu nei più
teneri anni quella viva impressione della commedia Harishchandra, che divenne addirittura per lui una ossessione.
«Perché tutti non sono sinceri come Harishchandra? mi chiedevo giorno e notte.
Seguire la verità e passare vittorioso per tutte le prove come avevo visto fare
da Harishchandra, era il pensiero dominante che la commedia mi ispirava». E diventò infatti la sua religione.
La Verità, di cui Gandhi si dice fedele cultore, è
Dio stesso. «ll mondo, egli scrive, è sostenuto dal Satya o verità. Asatya, che significa menzogna, è come
dire non esistente, mentre Satya vuol
dire ciò che è. Se la menzogna non
esiste neppure, è escluso che essa possa vincere, e la verità, essendo ciò che
è, non può venir mai distrutta». La verità insomma per Gandhi non è quella che
si possiede, ma quella che si cerca: non quella che si conosce, ma quella che
si deve conoscere: non la conoscenza della realtà, ma la realtà stessa, alla
quale la conoscenza deve appoggiarsi, se non vuol cadere nel vuoto. E una
verità pertanto che, essendo lì, fuori del pensiero dell'uomo, non può raggiungersi
senza uno sforzo che l'uomo faccia per uscire da sé e trasformarsi. Senza
questa trasformazione, l'uomo rimane fuori della verità, ossia del mondo reale
della vita. Per conoscere bisogna amare, immedesimarsi con la vita, che è la
verità stessa. Onde Gandhi, rivolgendosi indietro a considerare tutta la sua
vita vissuta in cerca della verità attraverso l'amore, scrive nell'ultimo
capitolo di questo libro: «In questo caso debbo tuttavia avvertire che il
difetto non è nel grande principio, ma nel mezzo delle espressioni usate a
descriverlo. Dopo tutto, benché sinceri, tutti i miei sforzi nei riguardi dell'Ahimsa possono essere stati imperfetti e
inadeguati; tutti quei fuggevoli barlumi della Verità che io son riuscito a
ottenere possono appena dare una minima idea del suo splendore, milioni di
volte più intenso di quello del sole che i nostri occhi vedono ogni giorno. In
realtà ciò che son riuscito ad afferrare è solo un pallido riflesso del potente
fulgore. Posso tuttavia dire con sicurezza come risultato di tutti i miei
esperimenti che una perfetta visione della Verità non può venire che da una
perfetta comprensione dell'Ahimsa.
Per poter vedere chiaramente l'universale spirito della Verità dobbiamo essere
capaci di amare le più umili creature come noi stessi. Chi aspira a ciò non può
straniarsi da alcuna manifestazione di vita».
Al bramino che consigliava Gandhi di ritirarsi in
solitudine, in una caverna, per riprendere il dominio dello spirito sul corpo,
Gandhi rispondeva: «So di essere colpevole. Ma questo serve a confermare che
non sono perfetto. E sfortunatamente sono molto lontano dalla perfezione. Sono
soltanto un umile aspirante ad essa. Conosco però la strada per arrivarvi. Ma
conoscere la strada non vuol dire saper andare alla meta. Se avessi conquistato
il pieno controllo delle mie passioni e dei miei pensieri sarei perfetto sotto
ogni aspetto». Gandhi sa di non poter essere paragonato a un profeta. «Sono un
umile cercatore della Verità». E la via è l'amore, con cui l'uomo si libera
dall'egoismo e vive di amore. E l'amore conduce alla politica. Poiché non vi è
politica senza religione, né religione senza politica: «La mia devozione per la
Verità mi ha portato nel campo della politica, e posso dire senza esitazione
alcuna, seppure con piena umiltà, che coloro i quali dicono che la religione
non ha nulla a che fare con la politica, non sanno che cosa significhi
religione». D'altra parte, la politica senza religione è fatale all'anima.
Questa religione di Gandhi non ha dommi, oltre
questa universale e fondamentale concezione filosofica. Non ha perciò
intolleranze, anzi promuove e richiede una illimitata simpatia per tutto ciò
che in ogni singola religione può considerarsi elemento positivo ed essenziale,
mentre ripugna a tutti i caratteri particolari che, rinchiudendo ogni
confessione religiosa entro limiti determinati, ne rappresentano invece
l'elemento negativo. Si vegga, per esempio, l'atteggiamento di Gandhi verso il
cristianesimo, di cui altamente apprezza la concezione umana e spiritualistica della
vita, ma respinge le credenze che, dividendo i cristiani da tutti gli altri
spiriti religiosi, negano a questi la possibilità di salvarsi. Influsso delle
tradizioni religiose indiane, che quanto abbondano di riti tanto scarseggiano
di contenuto dommatico; ma conseguenza altresì della dottrina dell'amore
universale, per tutti gli uomini, anzi per tutti i viventi, che Gandhi nel suo
sistema di vita ha energicamente sviluppata.
Quello che Gandhi non ritiene ammissibile è
l'ateismo: il deserto dell'ateismo, com'egli dice. E il lettore gusterà il fine
humour della scenetta descritta da
Gandhi alla stazione di Brookwood, dopo i funerali dell'ateo Bradlaugh. Dove
l'ateo propagandista non voleva perdere l'occasione di far proseliti e
catechizzava uno dei preti presenti: «Ebbene, signore, voi credete
nell'esistenza di Dio? - Certo - disse il brav'uomo sommessamente. - Voi sapete
pure che la circonferenza della terra è di ventottomila miglia - disse l'ateo
con un sorriso di superiorità - ditemi, dunque, vi prego, quanto è grande il
vostro Dio, e dove sta. - Noi sappiamo soltanto che risiede nei cuori di noi
due. Andiamo, andiamo, non mi prendete per un bambino - rispose l'ateo,
volgendo a noi presenti uno sguardo trionfante».
Gandhi invece sente in ogni attimo della sua vita
Dio, che lo sta mettendo alla prova. Sente perciò umilmente la propria
imperfezione: «La nostra vita deve essere un incessante sforzo verso la
perfezione, e questo sforzo non rimane mai senza premio»; e sente il bisogno di
sottomettere al volere gl'istinti inferiori, di purificarsi, di conquistare la
perfetta libertà dello spirito. Quindi la necessità della rinunzia, della
castità, delle volontarie privazioni. Quindi la verità cantata dal poeta: «La
rinuncia alle cose, che non ne spenga anche il desiderio, per quanti sforzi si
facciano, ha poca durata»; la verità di quei versi del Gita: «Se uno medita su oggetti del senso ne viene attratto;
dall'attrazione nasce desiderio; il desiderio diviene fiera passione, le
passioni provocano la follia; e allora la memoria dimentica ogni nobile méta e
corrompe la mente; finché meta, mente e uomo sono perduti».
Quindi il suo concetto tutto spirituale del peccato,
che lo fa ribellare alle seduzioni insidiose del fratello di Plymouth: «Io non
cerco di essere redento dalle conseguenze del mio peccato, ma dal peccato
stesso, o meglio dal pensiero del peccato»; ossia dall'interna disposizione
dello spirito, che trae al peccato.
E solo a questo patto la religione può diventare per
l’uomo, quello che risultò a Gandhi nelle sue esperienze politiche, fin dalle
lotte australiane, «una forza vivente». Solo a questo patto essa può essere
fondamento di quegli esercizi spirituali (capitolo XIII), che sono la sostanza
del sistema educativo di Gandhi. Il quale, oltre l'educazione fisica e quella
intellettuale, vuole e ritiene essenziale un'educazione spirituale: che è
un'educazione morale: formazione del carattere, conoscenza di Dio e di se
stessi. Forma di educazione in cui meglio si dimostra la solidarietà fondamentale
degli spiriti: poiché essa non è possibile per estrinseci insegnamenti o per
esercizi a cui si assoggetti soltanto l'individuo da educare, bensì mediante
una intima comunione spirituale del maestro cogli scolari. Perciò
l'applicazione di questi esercizi spirituali è, secondo Gandhi, «connessa alla
vita e al carattere del maestro. A mio parere sarebbe stato ozioso insegnare ai
miei allievi a dire la verità se io fossi stato un bugiardo. Un maestro vile
non può riuscire a creare discepoli coraggiosi, e uno che non sappia che cosa
voglia dire imporsi delle rinunce non può farne comprendere il valore ai propri
allievi. Io perciò mi convinsi che dovevo essere un esempio vivente per i
ragazzi e le ragazze che vivevano con me. Essi divennero i miei maestri ed io
imparai a essere buono e a vivere rettamente, se non altro per il loro bene.
Posso dire che l'aumentata disciplina e le maggiori rinunce imposte a me stesso
alla Colonia Tolstoi erano in gran parte dovute a questi miei allievi».
In questo atteggiamento spiritualistico e liberale o
antidogmatico del pensiero di Gandhi bisogna riconoscere un effetto dei
contatti di lui con la civiltà europea, specialmente inglese. Poiché in
Inghilterra si compì la sua educazione spirituale; e già il suo recarsi a
Londra a studiare fu un suo reciso distacco dalla psicologia, dal costume,
dalla chiusa e gretta tradizione religiosa indiana. Agl'inglesi perciò egli
rimane strettamente legato fino al tempo della guerra, alla quale egli sostenne
che gl'indiani dovessero partecipare per dovere verso l'Impero, di cui facevano
parte. In Inghilterra trovò uno de' suoi maestri spirituali, quando incontrò
nel libro di un poeta, l'Unto this last
di Ruskin (che più tardi Gandhi tradusse in gujarati), un vangelo: «il solo
libro», com'egli dice, «che mi abbia obbligato ad un istantaneo e reale
cambiamento di vita»: e nell'autore un vero «poeta», se «poeta è colui che
riesce a risvegliare nell'animo umano la bontà che vi è latente». Da Ruskin, in
Europa, egli ricevette un insegnamento, che impresse al suo spirito un
carattere schiettamente europeo. Com'egli stesso lo interpretò, questo
insegnamento poteva ridursi a tre capi:
«1° Il bene dell'individuo è contenuto nel bene
comune.
2° La professione dell'avvocato ha lo stesso valore
di quella del barbiere perché tutti hanno lo stesso diritto di guadagnarsi la
vita col proprio lavoro.
3° Una vita di lavoro, come quella dell'agricoltore
o dell'artigiano, è la sola degna di essere vissuta».
La prima massima, ci dice lo stesso Gandhi, gli era
già nota. Ma in questa forma del Ruskin accentuava il suo interesse sociale. Al
quale lo spingevano del pari la seconda e la terza: quella, già prima
confusamente intuita, e questa affatto nuova (ad essa «non avevo mai pensato»)
e veramente occidentale ed opposta alla maniera indiana, tutta contemplativa e
negativa, di concepire la vita. Tutte e tre, massime non peregrine per noi
europei: ma la cui potente efficacia fu quel miracolo che lo scrittore
attribuisce alla vera poesia: risvegliare la bontà latente degli animi; dare a
una forte energia spirituale ancora inconsapevole e in cerca di una mira e di
un programma di vita, la coscienza di sé e dei fini a cui deve indirizzarsi.
Come quelle parole semplici, che contengono grandi verità, ma passano inosservate
finché non tocchino un cuore preparato e pronto a trovarvi l'espressione degli
oscuri sentimenti che lo agitano.
L'orientamento di questa possente forza spirituale e
religiosa, affatto orientale, che Gandhi riceve dalla sua gente, verso gli
interessi sociali e politici, è dunque probabilmente un frutto dell'innesto
europeo nel tronco indiano, per cui la massa enorme del sentimento profondo
dell'individuo che religiosamente sente pulsare in sé la vita del tutto, e si
sente perció nel profondo accanto a tutti i viventi, si riversa dalla
contemplazione sterile del pensiero astratto, nella vita degli uomini che sulla
terra vivono lavorando, e per lavorare si assoggettano a rapporti giuridici e
questi rapporti definiscono e mantengono in una convivenza politica ordinata e
garantita da una volontà superiore. Questa, che è la grande profezia del
Mahatma Gandhi, scuote tutta l'India, perché vi porta un nuovo principio e
sopra la base secolare dell'antica anima indiana edifica perciò una costruzione
nuova.
È una rivoluzione interiore prima di essere quella
rivoluzione politica, di cui i connazionali di Gandhi non riuscivano a trovare
il metodo. Gandhi lo trovò nelle sue esperienze d'Australia e lo chiamò poi del
Satyagraha (parola coniata alquanto
liberamente da Gandhi stesso, dalle due parole gujarati Sat, verità, e agraha,
fermezza), per designare quello che gli inglesi dicono «resistenza passiva». È
una disobbedienza, ma è una disobbedienza civile; di cui il cittadino è capace
soltanto «quando ha dimostrato di essere rispettoso ed ossequente alle leggi
dello Stato», poiché «la maggioranza obbedisce a queste leggi per paura di
punizioni, e ciò vale specialmente per quelle leggi che non implicano un
principio morale. Un Satyagraha invece ubbidisce alle leggi della società
intelligentemente perché considera suo sacro dovere di farlo. Solo quando un
individuo ha obbedito scrupolosamente a tutte le leggi della società in cui
vive, è in grado di giudicare quali leggi sono giuste e buone, quali ingiuste e
inique».
Ma a queste
leggi ingiuste il Satyagraha non disobbedisce con la violenza o con la frode.
Poiché né frode né violenza sono lecite a chi ama la Verità e s'inspira all'Ahimsa. La fermezza che si chiede ai
cultori della verità è quella per cui si deve andare lealmente incontro alle
conseguenze delle proprie azioni e, nel caso della disobbedienza alle leggi,
assoggettarsi alle sanzioni che esse comminano, e in forza delle quali hanno
vigore effettivo di leggi. Esso è un disobbedire obbedendo; non sottrarsi alla
legge e mettersi fuori di essa; anzi sottomettersi pienamente, assolutamente,
in guisa che essa dimostri tutta la sua forza. Un collaborare col legislatore
mettendo alla prova la sua legge. Perché lo scopo del Satyagraha è questo: che
lo stesso legislatore, applicando la sua legge in tutto il suo rigore e fino
alle conseguenze estreme di cui logicamente è capace, si convinca della
insostenibilità di essa. Metodo estremamente difficile; la cui difficoltà non
fu originariamente calcolata dallo stesso Gandhi, costretto perciò una volta a
confessare d'aver commesso un errore grande come l'Himalaya. Perché suppone una
perfetta educazione morale e civile delle moltitudini incitate a questa
disobbedienza senza violenza né frode, con carità del prossimo e con
cavalleria, e insomma a questa collaborazione della non collaborazione. E nella
pratica i grandi movimenti delle moltitudini, infrangendo per necessità
l'ordine pubblico, non si vede come siano conciliabili con quel rispetto delle
leggi che il Satyagraha deve sempre osservare. Ma, comunque, l'ideale, come il
fatto ha dimostrato, è altamente morale e logico, e perciò di efficienza
politica grandissima. Storicamente è riuscito, sia pure limitandosi in pratica
com'è proprio di tutti gl'ideali, a provocare una delle più vaste rivoluzioni
del mondo. E il segreto della sua forza è lì, nello spirito europeo introdotto
nell'anima dell'India dal possente respiro.
Viceversa, gli europei hanno qualche cosa da
apprendere dal Mahatma indiano. E il suo libro riuscirà, non ho dubbio,
edificante per chi ha animo disposto a intendere che cosa sia fermezza nel
culto della verità, e cioè carattere, e spirito religioso, e forza di volere:
materiali costruttivi indispensabili per ogni umanità, sotto qualunque cielo,
in qualunque tempo, per qualunque programma di vita, con qualunque sistema
politico. E gl'italiani che non hanno nella propria letteratura libri di questo
genere, scritti con sì profonda ispirazione religiosa, impareranno a conoscere
in Gandhi un grande scrittore.