sabato 27 novembre 2021

Dalla prefazione di Giovanni Gentile all'Autobiografia di Gandhi.

 

Da "Ritrovare Dio", scritti sulla religione di G. Gentile, a cura di H. A. Cavalleria, Edizioni Mediterranee, 2021, “XII. L'AUTOBIOGRAFIA DI GANDHI”*

 * G. GENTILE, Frammenti di storia della filosofia, a cura di H.A. Cavallera, tomo I, p. 340-351. Già pubblicato come prefazione a MAHATMA GANDHI, Autobiografia, a cura di C.F. Andrews, Treves, Milano 1931.

 

Nel leggere questa Autobiografia, conviene por mente a ciò che è detto nella prefazione inglese: che cioè essa non è opera originale di Gandhi, ma compilazione del signor C.F. Andrews, inglese, amico dell'autore e suo fervente seguace, del quale si parla nel corso del libro. Questi trasse la narrazione da due opere autobiografiche scritte dal maestro nella sua lingua materna, il gujarati, e da altri tradotte in inglese: una delle quali molto voluminosa. E abbreviò molto le sue fonti, tralasciando tutte le parti che gli parvero di minore interesse. Donde quel che di slegato e di lacunoso che il lettore potrà notare qua e là nel testo che gli è presentato; e che, d'altra parte, essendo passato attraverso una duplice traduzione, può far desiderare nel racconto quel tono di perfetta immediatezza che è una delle attrattive maggiori degli scritti autobiografici; quantunque siano pur frequenti le pagine in cui l'animo dello scrittore si esprime in tutta la commovente semplicità del suo sentimento profondo. La brevità, per altro, e la rapidità per lettori europei sono un vantaggio a paragone del fare analitico, insistente e particolareggiato, che dà impressione di faticosa prolissità nei libri dell'India.

E poi la vita di Gandhi, evidentemente, non è scritta per interessare il lettore alla storia di un'anima o alle avventure di un uomo che ha vissuto intensamente e lottato e agito su milioni di uomini. La personalità dello scrittore entra nel libro come un carattere ideale, il cui svolgimento è la formazione d'una dottrina di vita; i casi esteriori sono appena accennati per quel tanto che era necessario a dare come lo scheletro del corpo, che l'autore voleva rappresentare nel suo movimento e nella sua vita.

Il Gandhi non è uno scrittore d'arte. Giornalista o autore, scrive per l'attuazione del suo programma pratico; e i suoi scritti sono azioni. Azioni di propaganda, come egli intende la sua propaganda: politica che è religione, e religione che è vita morale, formazione di sé, perfezionamento della propria volontà, purificazione dello spirito e via alla fratellanza universale.

Giacché per tutti gli scrittori lo scrivere un'autobiografia è sempre un recare un nuovo contributo alla realizzazione del proprio ideale di vita. E secondo che questo ideale è artistico o filosofico, teorico o pratico o religioso, il racconto della propria vita è un esemplificazione e incarnazione di quel determinato ideale, di cui l'artista si serve a spiegar meglio la propria estetica, il filosofo a dimostrare nella loro genesi razionale i propri concetti fondamentali, l'apostolo d'una fede religiosa la verità in atto del suo credo, l'uomo d'azione la necessità della propria condotta. E in verità che altro ogni uomo grande può trovare di interessante nella propria vita se non quello appunto che ne costituisce a' suoi stessi occhi il valore?

Gandhi ci dice esplicitamente nell'ultimo capitolo di questo libro (che egli intitola Storia delle mie esperienze con la verità) nel congedarsi «non senza rammarico» dai lettori:

«lo do un grande valore a queste esperienze, ma non so se sono stato capace di descriverle adeguatamente. Posso dire solo che ho fatto tutto il possibile perché la mia narrazione fosse fedele. Ho compiuto uno sforzo incessante per arrivare a descrivere la Verità quale è apparsa a me e nel modo esatto in cui io l'ho raggiunta. Questo esercizio mi ha dato un'ineffabile pace mentale, perché ho la grande speranza di recare la fede nella Verità e nell'Ahimsa ai dubbiosi.

L'esperienza mi ha insegnato che non vi è altro Dio che la Verità. E se ogni pagina di questo libro non dimostra che il solo mezzo per giungere alla Verità è nell'Ahimsa, debbo concludere che tutta la fatica per scriverlo è stata vana».

Più chiaro di così non si poteva dire il perché di questa autobiografia: giungere alla Verità attraverso l'Ahimsa: dottrina religiosa, che, ripeto, è una dottrina etico-politica che ha esercitato una potente azione, come tutti sanno, in India, dando un'anima e una volontà a moltitudini sterminate di uomini destatisi al contatto di un governo europeo e della vita europea, a una nuova coscienza di sé; ma che ha un universale valore umano. E questo costituisce l'alto pregio di questo libro.

I casi personali dello scrittore perciò sono ricordati in quanto servono a colorire il quadro, da cui deve risultare quel sistema di esperienze che Gandhi mira a rappresentarci: a spiegare cioè la formazione di quelle forze morali che sono per lui il segreto della vita. La madre è ricordata per l'impressione più forte che essa gli ha lasciata: quella della sua religiosità. Di una religiosità come Gandhi la concepisce, che impone rinunzie e astinenze e s'impadronisce di tutto l'uomo e non lascia adito ad arbitrio, per quanto possa sembrare ragionevole alla piccola ragione, al di là della quale lo spirito religioso sa che ce n'è un'altra, grande, universale e, in fine, la sola vera. «...Era profondamente devota e non avrebbe, per esempio, potuto prendere i suoi pasti senza aver prima detto le preghiere consuete...  Per quanto io ritorni indietro con la memoria, non posso ricordare che essa abbia mai mancato di osservare un digiuno imposto dalla religione. A volte faceva i voti più duri e li adempiva con fermezza; né le malattie erano pretesti per sottrarvisi. Mi ricordo che una volta si ammalò mentre osservava un voto di digiuno, ma nemmeno questo servì a farla rinunciare».

La ragione grande metteva a tacere la piccola; e amava circondarsi di mistero, che colpiva di più la fantasia dei piccoli figli, e faceva così penetrare più addentro nel cuore quella immagine viva di devozione:

«... Altre volte invece faceva voto di non toccare cibo se non vedeva il sole. Noi bambini in quei giorni stavamo a guardare il cielo aspettando il momento di annunciare alla mamma L'apparire del sole. Nel colmo della stagione delle piogge non di rado il sole non si lasciava vedere in tutto il giorno; e mi ricordo di giornate nelle quali all'apparire improvviso del sole dopo la pioggia noi correvamo a darne l'annuncio a nostra madre. Essa usciva a vederlo con i propri occhi, ma nel frattempo quel fuggevole raggio era di nuovo scomparso e la mamma rimaneva senza suo pasto.

Non importa - diceva allegramente - Dio non vuole che quest'oggi mi nutra - e ritornava alle sue solite faccende».

La commozione del tenero ricordo filiale si scioglie nel più vasto sentimento religioso. Il padre grandeggia ancor più, in alto, maestro solenne di vita religiosamente concepita. Sublime il racconto della prima confessione che Gandhi ricorda di aver fatta, appunto a lui, al Padre, di un fatto commesso nel seno stesso della famiglia. Il pensiero di esso non gli dava pace, e decide di confessarsene al Padre infermo, quantunque non gli reggesse a ciò l'animo. «Non che temessi che egli mi potesse bastonare. Non ricordo che mio padre abbia mai alzato la mano su uno di noi. No, temevo piuttosto di dargli un dolore troppo grande». Infine si decide, quasi fin d'allora fosse convinto dì una verità che oggi sente profondamente: non potervi essere purificazione senza completa confessione e un sincero e forte dolore. Dolore di chi? Di chi si confessa o di quegli a cui si confessa? Bisogna rileggere il racconto mirabile: «Decisi di scrivere la mia confessione e di presentarla a mio padre chiedendogli perdono; scrissi quello che dovevo dire in una striscia di carta e la consegnai a mio padre. Non solo avevo esposto sinceramente quello che avevo fatto, ma chiedevo anche una punizione adeguata. La confessione finiva con una preghiera nella quale lo supplicavo di non punire se stesso per il mio fallo e con la promessa formale che mai più avrei rubato.

Tremavo tutto, quando consegnai il foglio. Mio padre soffriva allora di una fistola ed era costretto a letto.

Il suo letto consisteva in una nuda asse di legno. Gli consegnai il foglio e mi sedetti di fronte a lui. Mentre leggeva, dagli occhi gli cadevano copiose lagrime che bagnavano lo scritto. Per un momento abbasso le palpebre meditando, poi stracciò il foglio. Si era seduto per leggere. Si sdraiò di nuovo. Anch'io piangevo, vedendo la sua angoscia».

Gandhi conchiude che «quelle benefiche dolci lagrime purificarono il suo cuore e lo lavarono dal peccato». Le lagrime di lui, ma anche quelle del Padre, che nella sua angoscia faceva sentire al figlio la potenza del suo amore. E perciò lo scrittore commenta che quella fu per lui «una lezione positiva di Ahimsa». Quella stessa Ahimsa che tanti anni più tardi redimerà un suo discolo alunno facendogli sentire tutto il dolore che per le sue mancanze provava egli stesso, Gandhi.

L'Ahimsa sarà infatti uno dei punti fondamentali della dottrina di Gandhi. Non violenza, amore; amore universale non solo per tutti gli uomini, ma per tutte le creature che sentono e possono soffrire il dolore; e nelle quali il dolore di una è dolore di tutte, solidalmente congiunte e fuse nello stesso sentire. Dottrina, il cui germe era nella filosofia giainica e nelle stesse credenze religiose della famiglia di Gandhi. Le quali perciò facevano divieto di mangiar carne. Un cattivo compagno indusse per qualche tempo Gandhi fanciullo a cibarsene; ma con quali sofferenze per lui, a dover nascondere il fatto ai genitori, e mentire! Giacche uno dei germi deposti più nel profondo, nel suo animo, fu nei più teneri anni quella viva impressione della commedia Harishchandra, che divenne addirittura per lui una ossessione. «Perché tutti non sono sinceri come Harishchandra? mi chiedevo giorno e notte. Seguire la verità e passare vittorioso per tutte le prove come avevo visto fare da Harishchandra, era il pensiero dominante che la commedia mi ispirava». E diventò infatti la sua religione.

La Verità, di cui Gandhi si dice fedele cultore, è Dio stesso. «ll mondo, egli scrive, è sostenuto dal Satya o verità. Asatya, che significa menzogna, è come dire non esistente, mentre Satya vuol dire ciò che è. Se la menzogna non esiste neppure, è escluso che essa possa vincere, e la verità, essendo ciò che è, non può venir mai distrutta». La verità insomma per Gandhi non è quella che si possiede, ma quella che si cerca: non quella che si conosce, ma quella che si deve conoscere: non la conoscenza della realtà, ma la realtà stessa, alla quale la conoscenza deve appoggiarsi, se non vuol cadere nel vuoto. E una verità pertanto che, essendo lì, fuori del pensiero dell'uomo, non può raggiungersi senza uno sforzo che l'uomo faccia per uscire da sé e trasformarsi. Senza questa trasformazione, l'uomo rimane fuori della verità, ossia del mondo reale della vita. Per conoscere bisogna amare, immedesimarsi con la vita, che è la verità stessa. Onde Gandhi, rivolgendosi indietro a considerare tutta la sua vita vissuta in cerca della verità attraverso l'amore, scrive nell'ultimo capitolo di questo libro: «In questo caso debbo tuttavia avvertire che il difetto non è nel grande principio, ma nel mezzo delle espressioni usate a descriverlo. Dopo tutto, benché sinceri, tutti i miei sforzi nei riguardi dell'Ahimsa possono essere stati imperfetti e inadeguati; tutti quei fuggevoli barlumi della Verità che io son riuscito a ottenere possono appena dare una minima idea del suo splendore, milioni di volte più intenso di quello del sole che i nostri occhi vedono ogni giorno. In realtà ciò che son riuscito ad afferrare è solo un pallido riflesso del potente fulgore. Posso tuttavia dire con sicurezza come risultato di tutti i miei esperimenti che una perfetta visione della Verità non può venire che da una perfetta comprensione dell'Ahimsa. Per poter vedere chiaramente l'universale spirito della Verità dobbiamo essere capaci di amare le più umili creature come noi stessi. Chi aspira a ciò non può straniarsi da alcuna manifestazione di vita».

Al bramino che consigliava Gandhi di ritirarsi in solitudine, in una caverna, per riprendere il dominio dello spirito sul corpo, Gandhi rispondeva: «So di essere colpevole. Ma questo serve a confermare che non sono perfetto. E sfortunatamente sono molto lontano dalla perfezione. Sono soltanto un umile aspirante ad essa. Conosco però la strada per arrivarvi. Ma conoscere la strada non vuol dire saper andare alla meta. Se avessi conquistato il pieno controllo delle mie passioni e dei miei pensieri sarei perfetto sotto ogni aspetto». Gandhi sa di non poter essere paragonato a un profeta. «Sono un umile cercatore della Verità». E la via è l'amore, con cui l'uomo si libera dall'egoismo e vive di amore. E l'amore conduce alla politica. Poiché non vi è politica senza religione, né religione senza politica: «La mia devozione per la Verità mi ha portato nel campo della politica, e posso dire senza esitazione alcuna, seppure con piena umiltà, che coloro i quali dicono che la religione non ha nulla a che fare con la politica, non sanno che cosa significhi religione». D'altra parte, la politica senza religione è fatale all'anima.

Questa religione di Gandhi non ha dommi, oltre questa universale e fondamentale concezione filosofica. Non ha perciò intolleranze, anzi promuove e richiede una illimitata simpatia per tutto ciò che in ogni singola religione può considerarsi elemento positivo ed essenziale, mentre ripugna a tutti i caratteri particolari che, rinchiudendo ogni confessione religiosa entro limiti determinati, ne rappresentano invece l'elemento negativo. Si vegga, per esempio, l'atteggiamento di Gandhi verso il cristianesimo, di cui altamente apprezza la concezione umana e spiritualistica della vita, ma respinge le credenze che, dividendo i cristiani da tutti gli altri spiriti religiosi, negano a questi la possibilità di salvarsi. Influsso delle tradizioni religiose indiane, che quanto abbondano di riti tanto scarseggiano di contenuto dommatico; ma conseguenza altresì della dottrina dell'amore universale, per tutti gli uomini, anzi per tutti i viventi, che Gandhi nel suo sistema di vita ha energicamente sviluppata.

Quello che Gandhi non ritiene ammissibile è l'ateismo: il deserto dell'ateismo, com'egli dice. E il lettore gusterà il fine humour della scenetta descritta da Gandhi alla stazione di Brookwood, dopo i funerali dell'ateo Bradlaugh. Dove l'ateo propagandista non voleva perdere l'occasione di far proseliti e catechizzava uno dei preti presenti: «Ebbene, signore, voi credete nell'esistenza di Dio? - Certo - disse il brav'uomo sommessamente. - Voi sapete pure che la circonferenza della terra è di ventottomila miglia - disse l'ateo con un sorriso di superiorità - ditemi, dunque, vi prego, quanto è grande il vostro Dio, e dove sta. - Noi sappiamo soltanto che risiede nei cuori di noi due. Andiamo, andiamo, non mi prendete per un bambino - rispose l'ateo, volgendo a noi presenti uno sguardo trionfante».

Gandhi invece sente in ogni attimo della sua vita Dio, che lo sta mettendo alla prova. Sente perciò umilmente la propria imperfezione: «La nostra vita deve essere un incessante sforzo verso la perfezione, e questo sforzo non rimane mai senza premio»; e sente il bisogno di sottomettere al volere gl'istinti inferiori, di purificarsi, di conquistare la perfetta libertà dello spirito. Quindi la necessità della rinunzia, della castità, delle volontarie privazioni. Quindi la verità cantata dal poeta: «La rinuncia alle cose, che non ne spenga anche il desiderio, per quanti sforzi si facciano, ha poca durata»; la verità di quei versi del Gita: «Se uno medita su oggetti del senso ne viene attratto; dall'attrazione nasce desiderio; il desiderio diviene fiera passione, le passioni provocano la follia; e allora la memoria dimentica ogni nobile méta e corrompe la mente; finché meta, mente e uomo sono perduti».

Quindi il suo concetto tutto spirituale del peccato, che lo fa ribellare alle seduzioni insidiose del fratello di Plymouth: «Io non cerco di essere redento dalle conseguenze del mio peccato, ma dal peccato stesso, o meglio dal pensiero del peccato»; ossia dall'interna disposizione dello spirito, che trae al peccato.

E solo a questo patto la religione può diventare per l’uomo, quello che risultò a Gandhi nelle sue esperienze politiche, fin dalle lotte australiane, «una forza vivente». Solo a questo patto essa può essere fondamento di quegli esercizi spirituali (capitolo XIII), che sono la sostanza del sistema educativo di Gandhi. Il quale, oltre l'educazione fisica e quella intellettuale, vuole e ritiene essenziale un'educazione spirituale: che è un'educazione morale: formazione del carattere, conoscenza di Dio e di se stessi. Forma di educazione in cui meglio si dimostra la solidarietà fondamentale degli spiriti: poiché essa non è possibile per estrinseci insegnamenti o per esercizi a cui si assoggetti soltanto l'individuo da educare, bensì mediante una intima comunione spirituale del maestro cogli scolari. Perciò l'applicazione di questi esercizi spirituali è, secondo Gandhi, «connessa alla vita e al carattere del maestro. A mio parere sarebbe stato ozioso insegnare ai miei allievi a dire la verità se io fossi stato un bugiardo. Un maestro vile non può riuscire a creare discepoli coraggiosi, e uno che non sappia che cosa voglia dire imporsi delle rinunce non può farne comprendere il valore ai propri allievi. Io perciò mi convinsi che dovevo essere un esempio vivente per i ragazzi e le ragazze che vivevano con me. Essi divennero i miei maestri ed io imparai a essere buono e a vivere rettamente, se non altro per il loro bene. Posso dire che l'aumentata disciplina e le maggiori rinunce imposte a me stesso alla Colonia Tolstoi erano in gran parte dovute a questi miei allievi».

In questo atteggiamento spiritualistico e liberale o antidogmatico del pensiero di Gandhi bisogna riconoscere un effetto dei contatti di lui con la civiltà europea, specialmente inglese. Poiché in Inghilterra si compì la sua educazione spirituale; e già il suo recarsi a Londra a studiare fu un suo reciso distacco dalla psicologia, dal costume, dalla chiusa e gretta tradizione religiosa indiana. Agl'inglesi perciò egli rimane strettamente legato fino al tempo della guerra, alla quale egli sostenne che gl'indiani dovessero partecipare per dovere verso l'Impero, di cui facevano parte. In Inghilterra trovò uno de' suoi maestri spirituali, quando incontrò nel libro di un poeta, l'Unto this last di Ruskin (che più tardi Gandhi tradusse in gujarati), un vangelo: «il solo libro», com'egli dice, «che mi abbia obbligato ad un istantaneo e reale cambiamento di vita»: e nell'autore un vero «poeta», se «poeta è colui che riesce a risvegliare nell'animo umano la bontà che vi è latente». Da Ruskin, in Europa, egli ricevette un insegnamento, che impresse al suo spirito un carattere schiettamente europeo. Com'egli stesso lo interpretò, questo insegnamento poteva ridursi a tre capi:

«1° Il bene dell'individuo è contenuto nel bene comune.

2° La professione dell'avvocato ha lo stesso valore di quella del barbiere perché tutti hanno lo stesso diritto di guadagnarsi la vita col proprio lavoro.

3° Una vita di lavoro, come quella dell'agricoltore o dell'artigiano, è la sola degna di essere vissuta».

La prima massima, ci dice lo stesso Gandhi, gli era già nota. Ma in questa forma del Ruskin accentuava il suo interesse sociale. Al quale lo spingevano del pari la seconda e la terza: quella, già prima confusamente intuita, e questa affatto nuova (ad essa «non avevo mai pensato») e veramente occidentale ed opposta alla maniera indiana, tutta contemplativa e negativa, di concepire la vita. Tutte e tre, massime non peregrine per noi europei: ma la cui potente efficacia fu quel miracolo che lo scrittore attribuisce alla vera poesia: risvegliare la bontà latente degli animi; dare a una forte energia spirituale ancora inconsapevole e in cerca di una mira e di un programma di vita, la coscienza di sé e dei fini a cui deve indirizzarsi. Come quelle parole semplici, che contengono grandi verità, ma passano inosservate finché non tocchino un cuore preparato e pronto a trovarvi l'espressione degli oscuri sentimenti che lo agitano.

L'orientamento di questa possente forza spirituale e religiosa, affatto orientale, che Gandhi riceve dalla sua gente, verso gli interessi sociali e politici, è dunque probabilmente un frutto dell'innesto europeo nel tronco indiano, per cui la massa enorme del sentimento profondo dell'individuo che religiosamente sente pulsare in sé la vita del tutto, e si sente perció nel profondo accanto a tutti i viventi, si riversa dalla contemplazione sterile del pensiero astratto, nella vita degli uomini che sulla terra vivono lavorando, e per lavorare si assoggettano a rapporti giuridici e questi rapporti definiscono e mantengono in una convivenza politica ordinata e garantita da una volontà superiore. Questa, che è la grande profezia del Mahatma Gandhi, scuote tutta l'India, perché vi porta un nuovo principio e sopra la base secolare dell'antica anima indiana edifica perciò una costruzione nuova.

È una rivoluzione interiore prima di essere quella rivoluzione politica, di cui i connazionali di Gandhi non riuscivano a trovare il metodo. Gandhi lo trovò nelle sue esperienze d'Australia e lo chiamò poi del Satyagraha (parola coniata alquanto liberamente da Gandhi stesso, dalle due parole gujarati Sat, verità, e agraha, fermezza), per designare quello che gli inglesi dicono «resistenza passiva». È una disobbedienza, ma è una disobbedienza civile; di cui il cittadino è capace soltanto «quando ha dimostrato di essere rispettoso ed ossequente alle leggi dello Stato», poiché «la maggioranza obbedisce a queste leggi per paura di punizioni, e ciò vale specialmente per quelle leggi che non implicano un principio morale. Un Satyagraha invece ubbidisce alle leggi della società intelligentemente perché considera suo sacro dovere di farlo. Solo quando un individuo ha obbedito scrupolosamente a tutte le leggi della società in cui vive, è in grado di giudicare quali leggi sono giuste e buone, quali ingiuste e inique».

 Ma a queste leggi ingiuste il Satyagraha non disobbedisce con la violenza o con la frode. Poiché né frode né violenza sono lecite a chi ama la Verità e s'inspira all'Ahimsa. La fermezza che si chiede ai cultori della verità è quella per cui si deve andare lealmente incontro alle conseguenze delle proprie azioni e, nel caso della disobbedienza alle leggi, assoggettarsi alle sanzioni che esse comminano, e in forza delle quali hanno vigore effettivo di leggi. Esso è un disobbedire obbedendo; non sottrarsi alla legge e mettersi fuori di essa; anzi sottomettersi pienamente, assolutamente, in guisa che essa dimostri tutta la sua forza. Un collaborare col legislatore mettendo alla prova la sua legge. Perché lo scopo del Satyagraha è questo: che lo stesso legislatore, applicando la sua legge in tutto il suo rigore e fino alle conseguenze estreme di cui logicamente è capace, si convinca della insostenibilità di essa. Metodo estremamente difficile; la cui difficoltà non fu originariamente calcolata dallo stesso Gandhi, costretto perciò una volta a confessare d'aver commesso un errore grande come l'Himalaya. Perché suppone una perfetta educazione morale e civile delle moltitudini incitate a questa disobbedienza senza violenza né frode, con carità del prossimo e con cavalleria, e insomma a questa collaborazione della non collaborazione. E nella pratica i grandi movimenti delle moltitudini, infrangendo per necessità l'ordine pubblico, non si vede come siano conciliabili con quel rispetto delle leggi che il Satyagraha deve sempre osservare. Ma, comunque, l'ideale, come il fatto ha dimostrato, è altamente morale e logico, e perciò di efficienza politica grandissima. Storicamente è riuscito, sia pure limitandosi in pratica com'è proprio di tutti gl'ideali, a provocare una delle più vaste rivoluzioni del mondo. E il segreto della sua forza è lì, nello spirito europeo introdotto nell'anima dell'India dal possente respiro.

Viceversa, gli europei hanno qualche cosa da apprendere dal Mahatma indiano. E il suo libro riuscirà, non ho dubbio, edificante per chi ha animo disposto a intendere che cosa sia fermezza nel culto della verità, e cioè carattere, e spirito religioso, e forza di volere: materiali costruttivi indispensabili per ogni umanità, sotto qualunque cielo, in qualunque tempo, per qualunque programma di vita, con qualunque sistema politico. E gl'italiani che non hanno nella propria letteratura libri di questo genere, scritti con sì profonda ispirazione religiosa, impareranno a conoscere in Gandhi un grande scrittore.