Guido Calogero, La Logica, 1960 GIULIO EINAUDI EDITORE s.p.a., Torino
Il problema della gnoseologia,
abbiamo detto, è quello della relazione tra la conoscenza e la realtà; è il
problema della verità prospettato non più soltanto in rapporto ad esigenze
della struttura interna del pensiero, ma bensì in rapporto all’esigenza del
concreto possesso dell’oggetto della conoscenza da parte del pensiero stesso.
La prima forma, in cui si presenta il problema gnoseologico, è di conseguenza
quella per cui la verità viene concepita come resultante dal possesso che si
realizzi, nel pensiero e da parte del pensiero, di una realtà ontologicamente
distinta dal pensiero stesso.
A questa prima posizione del
problema della conoscenza corrisponde l’idea della verità come resultante dall’adeguazione. Occorre rendersi conto del
carattere generale di questa posizione del problema, per vedere da un lato le
difficoltà a cui essa va incontro, e dall’altro i motivi per cui essa torna ad
imporsi sempre alla nostra riflessione. Per un verso, infatti, noi siamo
condotti ad escludere la plausibilità di ogni gnoseologia dell’adeguazione; per
altro verso, siamo costretti sempre, in qualche modo, ad accettarla.
La gnoseologia dell’adeguazione è
notoriamente basata sul principio, che in tanto ha verità la nostra conoscenza,
in quanto corrisponde alla cosa che essa conosce. C’è una realtà, che
condiziona la verità. La distinzione della verità dalla realtà sta infatti in
questo, che la verità è la realtà rispecchiata nella consapevolezza, tradotta
in pensiero, inclusa nella conoscenza (o comunque altrimenti si voglia dire).
Ad ogni scostamento della conoscenza dalla realtà corrisponde quindi una
diminuzione del valore di verità della conoscenza stessa. E’ questa, com’è
noto, la concezione classica della verità come resultante dalla adaequatio intellectus rei: dove la res è da intendere nel senso più
generale, di realtà che sussiste indipendentemente dal pensiero, e che può
esser quindi tanto una realtà materiale, cioè a sua volta soggettiva, in quanto
sensibile, quanto una realtà puramente intellegibile, come p. es. quella
dell’idea platonica, o quella di un’altrui opinione.
Questa concezione della
conoscenza quale adeguazione alla realtà, che è tipica di ogni considerazione
elementare del problema, entra d’altra parte in crisi già nella sofistica
greca, e più ancora, poi, nell’età dello scetticismo. La considerazione
fondamentale, che a questo proposito vien fatta valere soprattutto dallo
scetticismo, è la seguente. Com’è possibile accertare l’avvenuto raggiungimento
dell’adeguazione, com’è possibile controllare che il nostro pensiero risponda
realmente alla realtà, se questa realtà è in sé indipendente dal pensiero
stesso? Perché possa avere luogo il controllo circa l’adeguazione, è necessario
che tanto la realtà in sé quanto la conoscenza che noi ne abbiamo siano
entrambe presenti alla conoscenza che le confronta ai fini del controllo.
Quindi la verità della nostra conoscenza adeguata presuppone la verità di una
conoscenza, della quale noi non possiamo sapere se è, o meno, adeguata, perché
a sua volta, per essa, dovremmo instaurare un nuovo confronto, che
presupporrebbe una conoscenza ulteriore, e così all’infinito.
Così, p. es., la conoscenza
platonica dell’idea del bene è vera, secondo Platone, in quanto risponde
perfettamente all’idea del bene esistente in sé. Ma il confronto accertante che
l’idea del bene nella mente di Platone risponde all’idea del bene esistente
nell’Iperuranio è inclusa nella coscienza di Platone, o di chi, comunque,
instauri questo confronto. Quindi il criterio dell’adeguazione potrà riferirsi
solo a quella parte della conoscenza, che sarà paragonata al presunto oggetto:
ma non già a questa già presente conoscenza dell’oggetto, necessaria per il paragone.
Donde la conclusione scettica: –
Non possiamo mai essere sicuri della nostra conoscenza, per quanto concerne la
sua verità. Non possiamo mai sfuggire a questa relatività soggettiva della
conoscenza, perché tutte le volte che tentiamo di uscire da questa
soggettività, per confrontare il contenuto della nostra esperienza soggettiva a
qualcosa di oggettivo, tale realtà oggettiva non può non manifestarsi a sua
volta soggettiva, in quanto presente alla nostra coscienza –. Questa critica
scettica, com’è noto, conclude idealmente tutta la gnoseologia classica: ed è
tanto valida che il problema moderno della gnoseologia sorge proprio in quanto
accettazione, e nuova interpretazione, dello stesso punto di vista scettico. E’
la posizione agostiniana, campanelliana, cartesiana della certezza di sé,
nascete dal dubito ergo sum, dal cogito ergo sum: con che il perno
fondamentale della certezza vien trovato nella stessa coscienza soggettiva,
anche quando essa dubita della sua adeguazione alla realtà esterna. A parte,
quindi, il significato che possa altrimenti serbare il motivo dell’adeguazione
(ed è cosa che si vedrà), resta il fatto che la critica scettica del principio
della verità come adeguazione è tanto valida, che il pensiero posteriore ha
potuto superarne le difficoltà soltanto accettandola, cioè rinunciando, da un
lato, alla speranza di un assoluto controllo della verità mercé il criterio
dell’adeguazione del pensiero a qualcosa di estrasoggettivo, e d’altro lato
richiamando l’attenzione sul punto cosiddetto della «certezza» del pensiero,
ossia della radicale autocertezza e autoverità del pensiero stesso, che si
manifesta in maniera tipica quando si riflette sullo stesso fatto del dubitare.
Io dubito, non sono assolutamente certo che il mio pensiero corrisponda alla
realtà qual è: ma, intanto, sono certo del mio dubitare. Questa è una certezza
che non posso mettere in dubbio.
Da questo punto di vista, dunque,
possiamo ben dire che quanto, circa l’inapplicabilità del criterio gnoseologico
dell’adeguazione, è stato acquisito all’umana esperienza dalla riflessione
scettica, non può esser perduto più. Non possiamo tornare indietro rispetto a
questa esperienza, perché, se lo facessimo, ci troveremmo nelle condizioni di
dover poi, rileggendo gli antichi scettici, scoprire che non avevamo compiuto
quella esperienza mentale: e dovremmo correggere i nostri errori. La
riflessione scettica rispetto a questo problema è, con ciò, una conquista della
filosofia, una di quelle conquiste che, una volta raggiunte, non possono essere
abbandonate più, e continuano a vivere nel pensiero posteriore. (Il che può
dirsi, qui, in maniera più propria che quando si concepisca lo sviluppo del
pensiero come processo dialettico di superamento, onde ogni verità viene
«negata» in una verità superiore. Qui non c’è negazione, ma, se mai, solo
integrazione. Noi oggi riviviamo l’esperienza scettica in un più ricco quadro:
ma quell’esperienza si rifà tuttavia presente nel nostro pensiero così com’era
presente nel pensiero dell’antico scettico. Anzi, a rigore, è presente soltanto
nel nostro pensiero, il quale poi, ricostruendo lo sviluppo della storia della
filosofia, l’assegna, sulla base dei documenti, a questa o a quella figura
dello scetticismo classico).
Data, d’altronde, tale concreta
irrealizzabilità (almeno in questa sede specificamente gnoseologica)
dell’esigenza rappresentata dalla gnoseologia dell’adeguazione, qual è la
dottrina che la sostituisce, nel pensiero moderno? – E’ quella che può dirsi,
in generale, la gnoseologia del fare: la gnoseologia dell’azione, o della
creazione, cioè quella gnoseologia la quale, avendo compiuto l’esperienza
dell’impossibilità di concepire il pensiero come semplice adeguazione a una
realtà, considera invece il pensiero come azione rispetto a questa realtà, o addirittura
come sua creazione. La verità, essa giunge a dire, non è il riflesso della
realtà nel pensiero, ma è la stessa creazione della realtà da parte del
pensiero.
Questo è il tipo della
gnoseologia moderna, nella sua contrapposizione alla gnoseologia classica. E si
capisce che, come il pensiero moderno è infinitamente più complesso del
pensiero classico, così anche questa concezione gnoseologica, che insiste sul
motivo dell’attività e creatività del pensiero, è infinitamente più
differenziata, nelle sue forme, di quanto sia la concezione antica
dell’adeguazione. Possiamo dire che c’è una sola gnoseologia dell’adeguazione,
e che invece ci sono molte gnoseologie dell’azione e della creazione.
Esaminiamone alcune, per renderci conto di esse, e per vedere quali sono le
difficoltà che sorgono anche a proposito delle gnoseologie di questo tipo.
Consideriamo anzitutto, p. es.,
la gnoseologia vichiana. Sia nella sua prima fase, sia (e soprattutto) nella
seconda, essa è stata spesso assunta come simbolo della gnoseologia moderna, in
quanto interpreta essenzialmente il conoscere come un fare. Verum et factum convertuntur, è il
principio fondamentale del Vico. Nella prima fase del suo pensiero
gnoseologico, il Vico insiste soprattutto sul carattere creativo della conoscenza
matematica, cioè sul fatto che noi conosciamo realmente e fino in fondo le verità
matematiche proprio perché esse sono, per intero, costruite da noi. Siamo noi
che poniamo i presupposti, le definizioni, i postulati, su cui erigiamo le
verità matematiche. Ma la verità matematica resta pur sempre una verità
astratta: e così, nella seconda fase della gnoseologia vichiana, il problema si
sposta sul piano della storia.. Noi possiamo veramente conoscere il mondo della
storia («questo mondo delle nazioni», come dice il Vico), perché è quello che
abbiamo fatto noi uomini. Avendolo compiuto noi uomini, possiamo anche
conoscerlo, perché il nostro conoscere è questo stesso fare che si riproduce.
Il mondo naturale, invece, che è stato creato da Dio, può essere conosciuto soltanto
da Dio. Donde il maggior valore di verità che per Vico possiede la conoscenza
storica, a paragone della conoscenza scientifica.
Ora, questa concezione vichiana,
in che senso è propriamente una gnoseologia del fare? Consideriamo soltanto il
suo aspetto di gnoseologia storiografica, che ci interessa di più, avendo
esercitato grande influsso sul pensiero italiano contemporaneo. Il Vico dice
che noi possiamo veramente conoscere la nostra realtà storica, perché noi siamo
(in quanto uomini) quelli stessi che l’abbiamo compiuta. Per questo aspetto,
quindi, il fatto del nostro conoscere la storia in tanto è azione, in quanto è
già azione quella realtà che esso viene a conoscere. Ma ecco che, in tal
modo, il principio dell’adeguazione torna di nuovo a farsi valere, non meno di
quanto accadesse nella gnoseologia classica. Noi possiamo conoscere il mondo
della storia solo in quanto il nostro conoscere si presenta come riproduzione,
del tutto adeguata, di quella che già fu l’azione storica nel suo prodursi. In
questo senso, quindi, il fare storiografico ha verità rispetto al fare storico,
in quanto, ancora una volta, è adeguato ad esso. Non è il semplice fatto
dell’agire che, dal punto di vista storiografico, crea la verità, ma bensì il
fatto che questo agire storiografico sia gnoseologicamente adeguato al suo
oggetto.
Così, p.es., nel campo
dell’estetica e della storia dell’arte questo principio vichiano ha
fecondamente operato facendo intendere il giudicare l’opera d’arte, il
conoscere l’opera d’arte, come il ricreare la stessa esperienza storicamente
realizzatasi nella creazione di quell’opera. Noi comprendiamo un’opera d’arte
quando ci poniamo nella situazione dell’artista e cerchiamo di rinnovare il
meglio possibile, nella nostra esperienza, quella che fu l’esperienza sua. E
così per ogni altra conoscenza storica. Il fatto, quindi, che la conoscenza vi
si presenti come un fare, non è il momento della sua verità. Determinante è che
il fare si presenti come uguale al factum:
cioè che, p. es., l’esperienza storica che io realizzo ricostruendo la
mentalità di Napoleone sia il più possibile adeguata a quella che essa
obiettivamente fu. In questa adeguazione è il conoscere, non nel semplice fare.
Questo vale, almeno, per quella
concezione del conoscere come fare, che possiamo dire propriamente vichiana.
Essa d’altra parte sta alla base della stessa concezione crociana del conoscere
storiografico, che con essa s’identifica per lo meno nel suo più generale
schema gnoseologico. Donde la critica, che è stata rivolta a questa concezione
dell’attività conoscitiva quando si è detto che non è possibile concepire il
fare storiografico, nel suo rapporto col fare storico, come un rifare. Di
fatto, in che senso può veramente asserirsi che l’esperienza storiografica sia
un rivivere, rispetto all’originario vivere storico? Per esser sicuri che sia
un rivivere, noi dobbiamo presupporre quel vivere storico come oggetto della
nostra adeguazione storiografica: quindi dobbiamo tornare all’idea di una
gnoseologia per cui la conoscenza è adeguazione. E s’è già visto come l’ideale
dell’adeguazione non sia mai realizzabile, conducendo esso il pensiero ad un
processo all’infinito.
La difficoltà che si presenta in
una gnoseologia del fare, di tipo vichiano, è dunque quella che essa finisce di
nuovo per presupporre l’idea dell’adeguazione. Di qui l’esigenza di concepire
un diverso tipo di gnoseologia dell’azione, o della creazione, in cui più
direttamente la verità sia concepita come il fare stesso, in cui cioè sia lo
stesso agire del pensiero che crea la verità.
In quelle che possiamo più
propriamente chiamare gnoseologie
dell’azione (esempio tipico: Kant), il pensiero è concepito come
produttore di verità in quanto modificatore del dato; in quelle che possiamo
più propriamente chiamare gnoseologie della
creazione (esempio tipico: Fichte), il pensiero è concepito come
produttore di verità in quanto creatore di tutto intero il suo contenuto.
Vedremo, ora, se questi tipi di gnoseologia eliminino veramente la ricaduta nel
principio dell’adeguazione.
[Antologia di critica filosofica (esposizioni e studi)]
Pagine collegate:
- Conoscenza come adeguazione e conoscenza come fare (questa pagina)
- La gnoseologia dell'azione
- La gnoseologia della creazione