Guido Calogero: Conoscenza come adeguazione e conoscenza come fare

Guido Calogero, La Logica, 1960 GIULIO EINAUDI EDITORE s.p.a., Torino

Cap. XXI

Il problema della gnoseologia, abbiamo detto, è quello della relazione tra la conoscenza e la realtà; è il problema della verità prospettato non più soltanto in rapporto ad esigenze della struttura interna del pensiero, ma bensì in rapporto all’esigenza del concreto possesso dell’oggetto della conoscenza da parte del pensiero stesso. La prima forma, in cui si presenta il problema gnoseologico, è di conseguenza quella per cui la verità viene concepita come resultante dal possesso che si realizzi, nel pensiero e da parte del pensiero, di una realtà ontologicamente distinta dal pensiero stesso.

A questa prima posizione del problema della conoscenza corrisponde l’idea della verità come resultante dall’adeguazione. Occorre rendersi conto del carattere generale di questa posizione del problema, per vedere da un lato le difficoltà a cui essa va incontro, e dall’altro i motivi per cui essa torna ad imporsi sempre alla nostra riflessione. Per un verso, infatti, noi siamo condotti ad escludere la plausibilità di ogni gnoseologia dell’adeguazione; per altro verso, siamo costretti sempre, in qualche modo, ad accettarla.

La gnoseologia dell’adeguazione è notoriamente basata sul principio, che in tanto ha verità la nostra conoscenza, in quanto corrisponde alla cosa che essa conosce. C’è una realtà, che condiziona la verità. La distinzione della verità dalla realtà sta infatti in questo, che la verità è la realtà rispecchiata nella consapevolezza, tradotta in pensiero, inclusa nella conoscenza (o comunque altrimenti si voglia dire). Ad ogni scostamento della conoscenza dalla realtà corrisponde quindi una diminuzione del valore di verità della conoscenza stessa. E’ questa, com’è noto, la concezione classica della verità come resultante dalla adaequatio intellectus rei: dove la res è da intendere nel senso più generale, di realtà che sussiste indipendentemente dal pensiero, e che può esser quindi tanto una realtà materiale, cioè a sua volta soggettiva, in quanto sensibile, quanto una realtà puramente intellegibile, come p. es. quella dell’idea platonica, o quella di un’altrui opinione.

Questa concezione della conoscenza quale adeguazione alla realtà, che è tipica di ogni considerazione elementare del problema, entra d’altra parte in crisi già nella sofistica greca, e più ancora, poi, nell’età dello scetticismo. La considerazione fondamentale, che a questo proposito vien fatta valere soprattutto dallo scetticismo, è la seguente. Com’è possibile accertare l’avvenuto raggiungimento dell’adeguazione, com’è possibile controllare che il nostro pensiero risponda realmente alla realtà, se questa realtà è in sé indipendente dal pensiero stesso? Perché possa avere luogo il controllo circa l’adeguazione, è necessario che tanto la realtà in sé quanto la conoscenza che noi ne abbiamo siano entrambe presenti alla conoscenza che le confronta ai fini del controllo. Quindi la verità della nostra conoscenza adeguata presuppone la verità di una conoscenza, della quale noi non possiamo sapere se è, o meno, adeguata, perché a sua volta, per essa, dovremmo instaurare un nuovo confronto, che presupporrebbe una conoscenza ulteriore, e così all’infinito.

Così, p. es., la conoscenza platonica dell’idea del bene è vera, secondo Platone, in quanto risponde perfettamente all’idea del bene esistente in sé. Ma il confronto accertante che l’idea del bene nella mente di Platone risponde all’idea del bene esistente nell’Iperuranio è inclusa nella coscienza di Platone, o di chi, comunque, instauri questo confronto. Quindi il criterio dell’adeguazione potrà riferirsi solo a quella parte della conoscenza, che sarà paragonata al presunto oggetto: ma non già a questa già presente conoscenza dell’oggetto, necessaria per il paragone.

Donde la conclusione scettica: – Non possiamo mai essere sicuri della nostra conoscenza, per quanto concerne la sua verità. Non possiamo mai sfuggire a questa relatività soggettiva della conoscenza, perché tutte le volte che tentiamo di uscire da questa soggettività, per confrontare il contenuto della nostra esperienza soggettiva a qualcosa di oggettivo, tale realtà oggettiva non può non manifestarsi a sua volta soggettiva, in quanto presente alla nostra coscienza –. Questa critica scettica, com’è noto, conclude idealmente tutta la gnoseologia classica: ed è tanto valida che il problema moderno della gnoseologia sorge proprio in quanto accettazione, e nuova interpretazione, dello stesso punto di vista scettico. E’ la posizione agostiniana, campanelliana, cartesiana della certezza di sé, nascete dal dubito ergo sum, dal cogito ergo sum: con che il perno fondamentale della certezza vien trovato nella stessa coscienza soggettiva, anche quando essa dubita della sua adeguazione alla realtà esterna. A parte, quindi, il significato che possa altrimenti serbare il motivo dell’adeguazione (ed è cosa che si vedrà), resta il fatto che la critica scettica del principio della verità come adeguazione è tanto valida, che il pensiero posteriore ha potuto superarne le difficoltà soltanto accettandola, cioè rinunciando, da un lato, alla speranza di un assoluto controllo della verità mercé il criterio dell’adeguazione del pensiero a qualcosa di estrasoggettivo, e d’altro lato richiamando l’attenzione sul punto cosiddetto della «certezza» del pensiero, ossia della radicale autocertezza e autoverità del pensiero stesso, che si manifesta in maniera tipica quando si riflette sullo stesso fatto del dubitare. Io dubito, non sono assolutamente certo che il mio pensiero corrisponda alla realtà qual è: ma, intanto, sono certo del mio dubitare. Questa è una certezza che non posso mettere in dubbio.

Da questo punto di vista, dunque, possiamo ben dire che quanto, circa l’inapplicabilità del criterio gnoseologico dell’adeguazione, è stato acquisito all’umana esperienza dalla riflessione scettica, non può esser perduto più. Non possiamo tornare indietro rispetto a questa esperienza, perché, se lo facessimo, ci troveremmo nelle condizioni di dover poi, rileggendo gli antichi scettici, scoprire che non avevamo compiuto quella esperienza mentale: e dovremmo correggere i nostri errori. La riflessione scettica rispetto a questo problema è, con ciò, una conquista della filosofia, una di quelle conquiste che, una volta raggiunte, non possono essere abbandonate più, e continuano a vivere nel pensiero posteriore. (Il che può dirsi, qui, in maniera più propria che quando si concepisca lo sviluppo del pensiero come processo dialettico di superamento, onde ogni verità viene «negata» in una verità superiore. Qui non c’è negazione, ma, se mai, solo integrazione. Noi oggi riviviamo l’esperienza scettica in un più ricco quadro: ma quell’esperienza si rifà tuttavia presente nel nostro pensiero così com’era presente nel pensiero dell’antico scettico. Anzi, a rigore, è presente soltanto nel nostro pensiero, il quale poi, ricostruendo lo sviluppo della storia della filosofia, l’assegna, sulla base dei documenti, a questa o a quella figura dello scetticismo classico).

Data, d’altronde, tale concreta irrealizzabilità (almeno in questa sede specificamente gnoseologica) dell’esigenza rappresentata dalla gnoseologia dell’adeguazione, qual è la dottrina che la sostituisce, nel pensiero moderno? – E’ quella che può dirsi, in generale, la gnoseologia del fare: la gnoseologia dell’azione, o della creazione, cioè quella gnoseologia la quale, avendo compiuto l’esperienza dell’impossibilità di concepire il pensiero come semplice adeguazione a una realtà, considera invece il pensiero come azione rispetto a questa realtà, o addirittura come sua creazione. La verità, essa giunge a dire, non è il riflesso della realtà nel pensiero, ma è la stessa creazione della realtà da parte del pensiero.

Questo è il tipo della gnoseologia moderna, nella sua contrapposizione alla gnoseologia classica. E si capisce che, come il pensiero moderno è infinitamente più complesso del pensiero classico, così anche questa concezione gnoseologica, che insiste sul motivo dell’attività e creatività del pensiero, è infinitamente più differenziata, nelle sue forme, di quanto sia la concezione antica dell’adeguazione. Possiamo dire che c’è una sola gnoseologia dell’adeguazione, e che invece ci sono molte gnoseologie dell’azione e della creazione. Esaminiamone alcune, per renderci conto di esse, e per vedere quali sono le difficoltà che sorgono anche a proposito delle gnoseologie di questo tipo.

Consideriamo anzitutto, p. es., la gnoseologia vichiana. Sia nella sua prima fase, sia (e soprattutto) nella seconda, essa è stata spesso assunta come simbolo della gnoseologia moderna, in quanto interpreta essenzialmente il conoscere come un fare. Verum et factum convertuntur, è il principio fondamentale del Vico. Nella prima fase del suo pensiero gnoseologico, il Vico insiste soprattutto sul carattere creativo della conoscenza matematica, cioè sul fatto che noi conosciamo realmente e fino in fondo le verità matematiche proprio perché esse sono, per intero, costruite da noi. Siamo noi che poniamo i presupposti, le definizioni, i postulati, su cui erigiamo le verità matematiche. Ma la verità matematica resta pur sempre una verità astratta: e così, nella seconda fase della gnoseologia vichiana, il problema si sposta sul piano della storia.. Noi possiamo veramente conoscere il mondo della storia («questo mondo delle nazioni», come dice il Vico), perché è quello che abbiamo fatto noi uomini. Avendolo compiuto noi uomini, possiamo anche conoscerlo, perché il nostro conoscere è questo stesso fare che si riproduce. Il mondo naturale, invece, che è stato creato da Dio, può essere conosciuto soltanto da Dio. Donde il maggior valore di verità che per Vico possiede la conoscenza storica, a paragone della conoscenza scientifica.

Ora, questa concezione vichiana, in che senso è propriamente una gnoseologia del fare? Consideriamo soltanto il suo aspetto di gnoseologia storiografica, che ci interessa di più, avendo esercitato grande influsso sul pensiero italiano contemporaneo. Il Vico dice che noi possiamo veramente conoscere la nostra realtà storica, perché noi siamo (in quanto uomini) quelli stessi che l’abbiamo compiuta. Per questo aspetto, quindi, il fatto del nostro conoscere la storia in tanto è azione, in quanto è già azione quella realtà che esso viene a conoscere. Ma ecco che, in tal modo, il principio dell’adeguazione torna di nuovo a farsi valere, non meno di quanto accadesse nella gnoseologia classica. Noi possiamo conoscere il mondo della storia solo in quanto il nostro conoscere si presenta come riproduzione, del tutto adeguata, di quella che già fu l’azione storica nel suo prodursi. In questo senso, quindi, il fare storiografico ha verità rispetto al fare storico, in quanto, ancora una volta, è adeguato ad esso. Non è il semplice fatto dell’agire che, dal punto di vista storiografico, crea la verità, ma bensì il fatto che questo agire storiografico sia gnoseologicamente adeguato al suo oggetto.

Così, p.es., nel campo dell’estetica e della storia dell’arte questo principio vichiano ha fecondamente operato facendo intendere il giudicare l’opera d’arte, il conoscere l’opera d’arte, come il ricreare la stessa esperienza storicamente realizzatasi nella creazione di quell’opera. Noi comprendiamo un’opera d’arte quando ci poniamo nella situazione dell’artista e cerchiamo di rinnovare il meglio possibile, nella nostra esperienza, quella che fu l’esperienza sua. E così per ogni altra conoscenza storica. Il fatto, quindi, che la conoscenza vi si presenti come un fare, non è il momento della sua verità. Determinante è che il fare si presenti come uguale al factum: cioè che, p. es., l’esperienza storica che io realizzo ricostruendo la mentalità di Napoleone sia il più possibile adeguata a quella che essa obiettivamente fu. In questa adeguazione è il conoscere, non nel semplice fare.

Questo vale, almeno, per quella concezione del conoscere come fare, che possiamo dire propriamente vichiana. Essa d’altra parte sta alla base della stessa concezione crociana del conoscere storiografico, che con essa s’identifica per lo meno nel suo più generale schema gnoseologico. Donde la critica, che è stata rivolta a questa concezione dell’attività conoscitiva quando si è detto che non è possibile concepire il fare storiografico, nel suo rapporto col fare storico, come un rifare. Di fatto, in che senso può veramente asserirsi che l’esperienza storiografica sia un rivivere, rispetto all’originario vivere storico? Per esser sicuri che sia un rivivere, noi dobbiamo presupporre quel vivere storico come oggetto della nostra adeguazione storiografica: quindi dobbiamo tornare all’idea di una gnoseologia per cui la conoscenza è adeguazione. E s’è già visto come l’ideale dell’adeguazione non sia mai realizzabile, conducendo esso il pensiero ad un processo all’infinito.

La difficoltà che si presenta in una gnoseologia del fare, di tipo vichiano, è dunque quella che essa finisce di nuovo per presupporre l’idea dell’adeguazione. Di qui l’esigenza di concepire un diverso tipo di gnoseologia dell’azione, o della creazione, in cui più direttamente la verità sia concepita come il fare stesso, in cui cioè sia lo stesso agire del pensiero che crea la verità.

In quelle che possiamo più propriamente chiamare gnoseologie dell’azione (esempio tipico: Kant), il pensiero è concepito come produttore di verità in quanto modificatore del dato; in quelle che possiamo più propriamente chiamare gnoseologie della creazione (esempio tipico: Fichte), il pensiero è concepito come produttore di verità in quanto creatore di tutto intero il suo contenuto. Vedremo, ora, se questi tipi di gnoseologia eliminino veramente la ricaduta nel principio dell’adeguazione.

 [Antologia di critica filosofica (esposizioni e studi)]


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