Quando si nomina l’idealismo si
pensa subito, e purtroppo non soltanto da parte di chi sia profano di
filosofia, ad una concezione in cui si viene a negare valore alla realtà per
chiudere invece il pensiero all’interno delle sue più o meno arbitrarie ed
astratte evoluzioni. Il contrario è però vero! Bisogna infatti dire subito
nella maniera più categorica che nella decisione tra realismo ed idealismo non
è in gioco la concretezza della realtà, nel significato ampio e generico che si
dà a questa parola, ma soltanto lo schema esplicativo della sua
giustificazione, anche se poi a seconda dello schema utilizzato discende un
preciso concetto di essa.
Se ci fossero ragioni
immediatamente e dimostrativamente evidenti per sostenere la tesi del realismo,
ovvero se si potesse razionalmente dimostrare l’esistenza di una realtà che pur
essendo assolutamente “altra” dal pensiero fosse tuttavia tale da mostrarsi ad
esso, e cioè a noi, senza peraltro che ciò avvenga attraverso un qualche
rapporto tra l’uno e l’altra che metta in discussione l’assoluta separazione di
ciascuno di essi, allora non solo l’attualismo, bensì ogni forma di idealismo,
antico e moderno, non sarebbe mai sorta. Tutta la filosofia avrebbe
fondatamente professato questa tesi, che viene spontaneamente suggerita da
quella filosofia più immediata che è il senso comune. Ma l’estrema difficoltà
di essa sta nella sua stessa premessa, ovvero nell’assoluta alterità
presupposta in cui sono così concepiti pensiero e realtà: qui infatti
l’alterità va intesa non sulla base di un sottostante e fondamentale rapporto
da cui l’uno e l’altra prendano origine e che rappresenti quindi la loro unità,
più profonda della loro immediata distinzione, e che alla fine sarebbe il vero
pensare, l’attuale coscienza della realtà; bensì come assoluta e immediata
alterità, come se pensiero e realtà potessero effettivamente esistere l’uno
senza l’altra, senza che l’uno implichi nulla dell’altra, e nondimeno
accidentalmente venire a “contatto”. Il problema sta appunto nel dover
dimostrare la possibilità e la natura di un simile rapporto accidentale tra due
realtà poste già come non aventi alcun punto di contatto tra loro. Ma appunto,
l’alterità assoluta tra pensiero e realtà, e il loro accidentale rapporto,
vengono nel realismo assunti come una situazione data, che non ha una
spiegazione, ma dalla quale, secondo quel punto di vista, non si può neanche
prescindere. E’ quello che è stato chiamato intuito[1].
Questa posizione,
paradossalmente, e contrariamente a quanto in genere si pensa, è proprio quella
convinzione che costringe il pensiero a chiudersi in se stesso e a ricorrere a
un idealismo soggettivistico. Accettato con un atto di fede quel rapporto
assurdo, se la realtà esiste come altro dal pensiero, oltre e senza di esso,
ciò che il pensiero conosce della realtà, ciò che conoscitivamente può far
proprio di essa, non può mai essere la realtà stessa, ma qualcosa che il
pensiero immagina corrispondere a qualcos’altro che ne stia fuori. Sennonché il
pensiero non ha alcun modo di incontrare questo “fuori” se non ancora come
immagine al proprio interno, senza mai poter raggiungere quella che è stata
presupposta essere la realtà vera e propria. Il pensiero non potrà mai
accertarsi che quanto esso conosce della realtà corrisponda effettivamente ad
essa e lo stesso concetto di realtà in sé svanisce nel desiderio di essa. Esso
rimane chiuso nelle sue congetture. Da qui il sempre risorgente scetticismo circa
le ricostruzioni, per quanto formalmente logiche e coerenti, che il pensiero si
avventura a elaborare riguardo ad una realtà in quel modo concepita. Così il
realismo filosofico, che rappresenta la volontà spontanea di affermare la
concretezza del reale di contro alle ricostruzioni posticce che possono essere
fatte dalla riflessione intorno ad un’esperienza già conclusa, assumendo come
schema esplicativo quello del realismo ingenuo proprio del senso comune, il
quale nasce sulla base della distinzione immediata del corpo sensibile umano
dalle cose empiriche, riesce piuttosto a creare tra pensiero e realtà una
distanza insormontabile per una conoscenza possibile, lasciando, esso sì, il
pensiero raziocinante vuoto di realtà.
Se tra pensiero e realtà ci fosse
invece un vero punto di contatto, ciò significherebbe la loro sostanziale
identità e renderebbe falsa l’ipotesi di partenza del realismo. Ma perché
questa identità non sia la semplice giustapposizione di elementi concepiti
comunque isolatamente, il che sposterebbe soltanto il problema senza
risolverlo, bisogna raggiungere un modo di pensare diverso da quello proposto
dal realismo.
La risposta all’empasse in cui
inevitabilmente precipita il pensiero una volta assunta la posizione
realistica, è stata all’inizio dell’età moderna, ed è, la scoperta da parte del
pensiero stesso di una realtà tutta propria. Se la difficoltà del realismo è
dovuta al fatto che il pensiero si trovi a dover conoscere una realtà in
qualche modo già esistente prima che esso cominci a conoscerla, e quindi
esistente senza di esso, la soluzione non potrà che consistere nel raggiungere
la consapevolezza di una realtà la quale cominci ad esistere soltanto grazie
all’atto stesso con cui il pensiero comincia a conoscerla. Una tale realtà è il
pensiero stesso nell’atto intero ed effettivo in cui esso esercitandosi si
realizza, essendo soltanto così pensiero concreto. Prima e indipendentemente
dallo stabilire l’esistenza e la possibilità di conoscere altre realtà, il
pensiero, che è tale solo pensando, acquista coscienza di sé realizzandosi; e
quindi, nel suo atto, ciò di cui acquista coscienza non è altra cosa dall’atto
stesso con cui si realizza come coscienza. Qui, per conoscere la propria realtà
effettiva, il pensiero non ha bisogno di riprodursi in un’immagine che non
avrebbe modo di scavalcare per controllarne la fedeltà al supposto modello
reale. Il conoscere non è più contemplazione, assunzione passiva di ciò che è
immaginato come esterno al pensiero, ma realizzazione di ciò che vien così conosciuto,
quindi attività che esercitandosi è atto consapevole di se stesso. Nell’atto
conoscitivo, preso nella concretezza intrascendibile del suo effettuarsi,
realtà e conoscenza di essa coincidono. Realtà, questa del pensiero, di cui non
è possibile, a differenza della realtà del realismo, dubitare, perché
l’esercizio del dubbio, nel negarla la fa esistere, nel volerla mettere in
crisi, la costituisce e la rinsalda.
Una volta raggiunta la concezione
di una tale realtà, la cui certezza è tutta racchiusa nell’identità al pensiero
che pensandola la fa essere, era inevitabile non solo che si cominciasse a
pensare il mondo a partire da essa, ma anche soprattutto che la realtà in
generale si finisse con il doverla concepire soltanto all’interno di quella concezione.
Infatti, i tentativi successivi fatti dalla filosofia moderna nel rapportare
una realtà già esistente in sé, al pensiero che la deve conoscere, misero in
evidenza soltanto l’artificiosità e inconsistenza dell’intuito passivo, sia
sensibile che intellettivo, come rapporto tra i due separati ordini di realtà.
Al contrario, invece, i caratteri che più rappresentavano l’oggettività della
realtà rispetto alla particolarità e contingenza del soggetto conoscente, si
venivano svelando come costruzioni regolari di una più profonda operatività del
pensiero, obiettiva e universale. Il mondo cominciò a configurarsi non più come
lo scenario su cui la coscienza distende il suo sguardo impotente, ma come
l’opera in atto a cui mai il pensiero smette di attendere. Cominciò ad esser
chiaro che, se il mondo che conosciamo non può preesistere a noi che lo
conosciamo, esso allora non può non identificarsi con il processo stesso con
cui noi veniamo a conoscerlo.
[1] Un
diverso concetto dell’intuito è quello per cui esso non è un rapporto dato e
immediato tra due realtà presupposte come assolutamente separate, ma la
coincidenza originaria di coscienza e realtà che si esplica nel processo della
loro distinzione attraverso la loro sintesi (Vedi Giovanni Gentile, “Teoria generale dello spirito come atto puro”,
Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1987. Cap. VIII ‘Il positivo come autoctisi’, § 5).
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