lunedì 23 novembre 2020

Teresa Serra


Giovanni Gentile. L'attualità di un pensiero


Dati i mutamenti politico-culturali avvenuti negli ultimi venti anni possiamo chiederci se è possibile cominciare a guardare al pensiero di Giovanni Gentile con animo sgombro da pregiudizi ideologici e forse mettendo tra parentesi l’attività politica per guardare solo alla sua filosofia, vale a dire se è possibile guardare a quella filosofia come necessariamente correlata a scelte totalitarie o suscettibile, indipendentemente dalla opzione di vita del suo autore, di essere altrimenti interpretata… Tornare oggi a riflessioni e letture gentiliane significa anche, di fronte ai problemi con cui si confronta il pensiero contemporaneo, chiedersi, in virtù di molte assonanze, se Gentile non possa essere considerato un filosofo di respiro europeo, ancora attuale; e certamente non per aver o non avere avuto fortuna oltralpe, ma perché la sua riflessione sembra essere in linea con le strade seguite dalla riflessione europea, alla quale potrebbe aver anche dato suggestioni interessanti, dirette o indirette. Sono strade che Gentile percorre forse in anticipo e autonomamente, dimostrando, però, di aver svolto, se pur in modo personale e forse senza colloquiare col pensiero europeo, comunque, ammesso che lo abbia ascoltato, senza realizzarne alcuna sudditanza, le linee che da una cultura permeata di kantismo e di idealismo, sia nella forma fichtiana che hegeliana, provenivano… E si tratta proprio delle linee su cui gli interpreti di Gentile hanno lavorato negli ultimi anni. Da questo punto di vista non si può essere d’accordo con chi dichiara la completa improponibilità di una ripresa gentiliana, ripresa che evidentemente è da intendere non come riproposizione di un pensiero ma come attenzione ad una riflessione che ha ancora qualcosa da dire e che occorre far interloquire col suo secolo, anche quando sembra che il suo autore stesso non lo abbia fatto… Riflettendo su questi punti si possono oggi forse seguire strade diverse che consentono di inserire le suggestioni gentiliane non nella filosofia del dopoguerra ma in quella della fine del secolo, cioè di ritornare a Gentile con uno spirito che per certi suoi aspetti tenda a proiettarlo, in una dimensione non solo italiana, nel nostro tempo, che è un tempo di crisi, in cui sembra che si vada nella direzione della eliminazione della stessa distanza tra soggetto e oggetto attraverso una eliminazione della stessa oggettualità e della datità che, alla fine, comporta, come Gentile ammoniva, la impossibilità di una definizione di entrambi i termini. Di fronte al processo di smaterializzazione della realtà cui il nostro mondo si sta avviando forse non è di scarsa importanza tornare a leggere Gentile e fare attenzione alla sua definizione del rapporto soggetto-oggetto, che è poi anche la definizione del rapporto filosofia scienza e soggetto norma… Si pone Gentile, dunque, se pur con una personale soluzione, nella linea di una filosofia del novecento che va nella stessa direzione, con risultati simili eppur diversi, ma non per questo più definitivi o irrefutabili. Si può perciò ben essere d’accordo con Natoli quando ricorda che «Gentile è europeo per la sua collocazione teorica, per il fatto che realizza l’immanenza e rende definitivamente impossibile di poter pensare l’io nei termini della teoria della conoscenza». E’ europeo per la sua capacità di «pensare ciò a cui l’epoca chiama». Ed è per questo che quella gentiliana è una prospettiva che può ancora oggi dare suggestioni anche se esige di essere rivisitata…

 

“Giovanni Gentile. L'attualità di un pensiero” - Centro per la Filosofia Italiana, 13 agosto 2012

Gennaro Sasso

[Gentile e la riforma della scuola]


passi scelti da

GENTILE, Giovanni  -  Dizionario Biografico degli Italiani 


Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e filosofia.

Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani cittadini dello Stato italiano.

Accanto alle molte critiche, occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il "nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.

Gennaro Sasso

[Gentile e il parlamentarismo]


passi scelti da

GENTILE, Giovanni  -  Dizionario Biografico degli Italiani 

 

Il G. non era nazionalista, e meno che mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie.

… il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni, si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia.

... Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G. cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica.

La disistima che, in linea generale, già da molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione.

I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità insegnato che la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.