Guido Calogero: La gnoseologia della creazione

 Guido Calogero, La Logica, 1960 GIULIO EINAUDI EDITORE s.p.a., Torino

Cap. XXIII

Se l’esempio classico della gnoseologia dell’azione è la gnoseologia di Kant, l’esempio classico della gnoseologia della creazione è la gnoseologia di Fichte. Può essere utile richiamarne le impostazioni fondamentali. Fichte concepisce il pensiero come tale che ogni suo contenuto sia la posizione stessa che esso fa di sé. Egli parte dal concetto dell’io. Dal punto di vista della vecchia logica e metafisica (egli dice) si poteva pensare che ogni verità fosse deducibile dal supremo principio logico, cioè dal principio d’identità. Ora il principio d’identità (almeno secondo la tradizione scolastica a cui si ricollega Fichte) è: A è A. Verità incontrovertibile dice Fichte: ma che però presuppone la nostra conoscenza di A: presuppone questo dato, rispetto a cui il pensiero possa poi, riflettendo, asserire incondizionatamente che, se A è, A è A. Quindi, per questo suo presupporre l’A, il principio di identità non è veramente il principio primo della conoscenza. Ciò che invece, nella mia riflessione, io ho già assolutamente, a prescindere da qualsiasi ulteriore riflessione o presupposizione, sono io stesso, in quanto io puro, in quanto universale forma di soggettività della mia esperienza. Al principio A=A bisogna dunque sostituire, come principio primo, la formula Io=Io. Questa è la prima verità di cui io possa assolutamente essere certo.

D’altra parte, continua Fichte, io non posso dire «Io=Io», cioè «Io sono Io», se non contrappongo me a qualcosa d’altro, se non contrappongo l’io al non-io. Infatti l’idea dell’io, per avere un contenuto, deve distinguersi da ogni diversa idea: altrimenti, se non ci fosse che essa sola come contenuto di pensiero, non ammetterebbe delimitazione alcuna, e svanirebbe nel nulla, nell’indeterminato. E’ quindi necessario che ci sia il non-io di fronte all’io. Questa antitesi, che si contrappone alla tesi, è coessenziale alla vita stessa della tesi.

Ma, a sua volta, questo non-io, che così si contrappone all’io, non è estraneo a quel più profondo io, che sono appunto io che faccio questa contrapposizione, riflettendo in questo modo sulla necessaria determinatezza dell’io e perciò contrapponendo all’io il non-io. Di conseguenza, questa contrapposizione dell’antitesi non-io alla tesi io è possibile soltanto in seno a quella conclusiva sintesi, che sono io stesso in quanto contrapponente in me il non-io all’io. Questo è l’io concreto, di fronte all’io e al non-io astratti.

In base a questo fondamentale schema speculativo, il Fichte interpreta quindi ogni realtà, che ci si presenta quale non-io – cioè quale oggetto del pensiero, che il pensiero si trova di fronte, e rispetto al quale esso avverte quella sostanziale alterità, che tradizionalmente distingue il pensante dal pensato, la coscienza dall’oggetto – come prodotto dalla sua stessa attività ponente. Sono io stesso, in quanto io concreto, che pongo il non-io astratto di fronte all’io astratto.  Quindi ogni realtà obiettiva, che io ritenga sussistente di fronte a me, è il prodotto della mia stessa posizione (anche a prescindere, qui, dalla particolare distinzione, che il Fichte istituisce poi, in proposito, tra attività pratica e attività teoretica). Conoscere la realtà oggettiva equivale a porla, e a porla assolutamente, perché non c’è nessun presupposto oggettivo che induca l’io a porre il non-io in un certo modo piuttosto che in un altro.

Erede di questa concezione fichtiana (qui richiamata nelle sue linee più semplici e schematiche) è, nella filosofia contemporanea, la concezione creazionistica del pensiero, quale p. es. si presenta nell’«attualismo» del Gentile. Secondo questa dottrina, ogni pensato, cioè ogni realtà che il pensiero consideri come oggettiva e che perciò si configuri rispetto al pensiero pensante come pensiero pensato, non è che una posizione dello stesso pensiero pensante. Essa non è che il risultato, sempre posto e sempre tolto, della perenne e onnipresente attività creatrice dello spirito. D’altra parte, non essendo questa attività ponente dello spirito un’attività per la quale esso proceda al di fuori di se stesso (giacché, com’è chiaro, in una simile posizione di rigoroso soggettivismo idealistico nulla può mai esserci di esterno all’io), si può dire che la posizione che lo spirito fa del mondo non è se non la posizione che lo spirito fa di se stesso. In questa autoposizione, o autocreazione, o «autoctisi» si può quindi distinguere un creante e un creato: ma in realtà il creato non è altro che il creante che incessantemente si pone come tale, e a sua volta il creante non sussiste mai, in concreto, se non come eterna posizione del creato. Questa è, nella sua forma più semplice e rigorosa, la gnoseologia della pura creazione.

In una concezione di questo genere, le difficoltà che s’incontravano nella gnoseologia dell’azione non hanno, certamente, più luogo. E, per un certo aspetto, non si può affatto dire che essa si contraddica. E’ l’aspetto per cui essa si presenta non tanto come una gnoseologia determinante i poteri e i limiti e i modi del conoscere, ma bensì come una negazione di ogni possibile delimitazione gnoseologica, di fronte all’assoluta autonomia e autocreatività del pensiero. Di fatto, una gnoseologia che si risolva nell’affermazione che il pensiero crea se stesso, che il pensiero non ha mai presupposti perché ogni suo presupposto è la sua stessa posizione del presupposto, che il pensiero è sempre posizione del suo contenuto anche quando ritiene che il contenuto gli preesista, – una gnoseologia di questo genere è del tutto inattaccabile, proprio perché non è più neanche una gnoseologia.

Le difficoltà sorgono bensì, in tale concezione, in quanto essa ritiene di poter aggiungere alla generale enunciazione di questo principio dell’infinita autonomia del pensiero un’ulteriore precisazione di carattere gnoseologico, quale p. es. si manifesta nella successiva deduzione fichtiana delle categorie e nella concezione gentiliana del Sistema di logica, attraverso le dottrine della «logica dell’astratto» e della «logica del concreto» e l’interpretazione e giustificazione minuta di tutte le forme della logica classica in seno alla logica dell’astratto. E’ chiaro infatti che, per obbedire al più vero spirito di una dottrina del pensiero come creazione, si deve dire che qualsiasi posizione di leggi logiche e gnoseologiche è solo una particolare e determinata posizione, che lo spirito fa di se stesso in quella forma. Quindi, p. es., tutto il sistema della «logica dell’astratto, e addirittura tutto il sistema della Logica come teoria del conoscere del Gentile è solo una data posizione che lo spirito ha compiuto di sé, e che non ha maggior valore di normatività formale della posizione che lo spirito stesso fa di sé pensando una foglia o una stella così come qualsiasi altro possibile ed anche erroneo pensiero. Non esistono insomma, in questo caso, altre leggi oltre quella dell’assoluta attualità e perennità della creazione. Cosicché una simile dottrina appare inattaccabile in quanto si risolve nella semplice asserzione della perennità attuale e creatrice dello spirito; mentre, qualora invece specifichi la forma di questa creatività, essa sottomette il creare dello spirito a certe forme, che non sono più prodotti della sua stessa attuale e sempre mutevole creazione ma presupposti della creazione, e che perciò riducono la creazione stessa a una creazione per burla, come sarebbe quella di una divinità che avesse imposte da un’altra divinità le regole del suo creare.

Interpretata, dunque, la gnoseologia della creazione nel suo senso migliore, cioè liberato il suo più fecondo principio dalle contraddittorie soprastrutture, si vede bene che essa non è neppure una gnoseologia, né una logica, perché è soltanto l’affermazione dell’attualità dello spirito. Essa si risolve nell’affermazione che lo spirito è presente, che lo spirito è attuale, che io sono io, e che tutto, comunque si presenti, è da questo punto di vista in me. Si potrà allora domandare: – Ma se la gnoseologia della creazione non può specificarsi in nessuna particolare dottrina gnoseologica, perché in tal caso contraddice se stessa, e se anzi neppure può più presentarsi come una gnoseologia perché non è più una specifica dottrina del conoscere ma semplicemente l’asserzione dell’infinità attuale dello spirito e della coscienza, in che consiste il suo valore?

Di fatto, il suo grandissimo valore è proprio quello di costituire l’istanza ultima contro la possibilità di ogni logica e gnoseologia tradizionale. Essa compie questa funzione, in apparente contrasto con se stessa: la funzione di mettere in chiaro l’implicita contraddittorietà di ogni logica e ogni gnoseologia specificamente considerata. Questa è la grande funzione storica della gnoseologia della creazione, la quale appunto non esclude che essa si sprigioni dalla sua opera attraverso la negazione di gran parte dell’opera stessa, nel senso che, quando si è interpretata a questo modo la gnoseologia fichtiano-gentiliana, la maggior parte delle dottrine specifiche che si presentano negli scritti più propriamente logico-gnoseologici del Fichte e del Gentile viene respinta. Solo dal suo angolo visuale, infatti, noi giungiamo a scorgere la contraddittorietà di tutte le altre logiche e gnoseologie. Tutto ciò che abbiamo detto a proposito delle forme logiche e gnoseologiche è sempre stato fondato sul continuo riferimento del pensiero considerato oggettivamente al punto di vista del pensiero attuale, e più propriamente della stessa riflessione gnoseologizzante, del mio stesso riflettere gnoseologico. Il richiamo a questo riflettere gnoseologico, che infirma la gnoseologia, è essenzialmente determinato, nella tradizione storico-filosofica, dal metodo dell’attualismo. Questo suo merito non deve essere quindi dimenticato, neanche quando s’insiste sul fatto che, proprio in funzione del suo principio, esso deve lasciar cadere da sé la maggior parte della sua specifica dottrina logico-gnoseologica.

Ciò del resto, si può dire, è sempre accaduto nella storia, perché ogni pensatore ha influito sullo sviluppo del pensiero posteriore piuttosto col motivo generale della sua speculazione, con l’indirizzo nuovo nel suo modo di pensare, che non con le sue dottrine determinate, le quali molto spesso sono state lasciate cadere. Si pensi ad ogni grande filosofo, e si vedrà che la sua sorte è stata quasi sempre questa, di fornire una certa arma mentale ai suoi successori, mediante la quale essi hanno potuto procedere innanzi, anche se quell’arma mentale era poi tale da distruggere tutto il resto della dottrina da lui enunciata.

Questa più profonda caratteristica della gnoseologia dell’attualismo spiega anche, d’altronde, il suo nesso con la gnoseologia di Berkeley, dalla cui dottrina muove inizialmente la stessa Teoria generale dello spirito come atto puro del Gentile. La teoria berkeleiana della conoscenza e della realtà non è, a rigore, né una gnoseologia dell’azione, né una gnoseologia della creazione. Nel suo aspetto più caratteristico, essa è la semplice esclusione del problema del rapporto fra il pensiero e la realtà, mercé il concetto che non esiste nessuna realtà, di cui si possa parlare, la quale non sia già nel pensiero. Il principio fondamentale della gnoseologia berkeleiana è, come tutti sanno, espresso dalla formula esse est percipi. Ossia: non esiste nulla, di cui noi possiamo dire che semplicemente è, e rispetto al quale possiamo proporci il problema del modo in cui il nostro pensiero lo conquisti, perché, qualunque cosa noi diciamo che è, dobbiamo perciò stesso dire che è nella nostra coscienza. Non esiste ens, che non sia perceptum (in questo senso generalissimo). Non esiste mai niente di oggettivo, che non sia già soggettivo. Quindi (implicitamente) niente è più inutile che preoccuparsi del rapporto fra il soggetto e l’oggetto, il pensiero e la realtà. Questa antitesi, invero, non ha luogo: c’è soltanto il nostro pensiero, in cui qualcosa sarà sì realtà e non fantasia, ma non già nel senso che si contrapponga al pensiero, bensì in quello che si contrapporrà a qualcos’altro, come una determinata forma del nostro pensiero rispetto a un’altra determinata forma del nostro pensiero.

A questo proposito, la spiegazione di Berkeley (che qui ritorna adeguazionista all’antica) sarà quella che la «realtà» è il nostro pensiero che è anche pensato da Dio, in contrasto con quel nostro pensiero, che non è anche pensato da Dio. Il nostro pensiero coincidente col pensiero divino ci si impone con una costrizione pratica per cui noi lo chiamiamo «realtà»; quello che invece non è pensato da Dio, ma solo da noi, non ci si impone con la stessa costrizione pratica, e lo chiamiamo fantasia, immaginazione. Ma, a parte questo ritorno al motivo adeguazionistico (che riproduce nel rapporto tra pensiero umano e pensiero divino la classica situazione dell’antitesi tra conoscenza ed essenza, soggetto ed oggetto), Berkeley intuisce bene che la distinzione non ha più luogo tra la realtà e il pensiero, ma solo tra una certa forma di pensiero-realtà e una cert’altra forma di pensiero-realtà. Nel che è la radicale eliminazione del problema della gnoseologia, come problema del rapporto fra il conoscere e l’essere, il pensiero e la realtà.

A questo punto, d’altronde, vediamo come la soluzione-eliminazione del problema della gnoseologia si sia venuta a identificare con la soluzione-eliminazione del problema dell’ontologia. La critica della gnoseologia in senso specifico non solo ci ha condotti ad escludere che noi dobbiamo proporci il problema dell’antitesi del pensiero alla realtà, ma ci ha anche portati a comprendere che lo stesso problema della realtà oggettiva è per ciò stesso analogamente risolto ed eliminato, una volta per sempre. Come, infatti, non c’è più motivo di dubitare e di discutere della facoltà conoscitiva del pensiero, indagando se esso può conquistare la realtà e ricercando quali sono i modi e le forme necessarie attraverso cui esso la conquista, così non abbiamo più motivo di preoccuparci della natura della realtà ontologicamente considerata, cioè considerata in quegli aspetti per cui essa sarebbe qualcosa di distinto dal nostro pensiero e possiederebbe come tale una sua essenza, da riconoscere ed interpretare. Se invero si esaminano le presunte forme assolute della realtà in sé, si trova che anche per esse, come già per le forme logiche e gnoseologiche, vale il principio che tutto quanto in esse è concreto si manifesta quale forma dell’attività pratica dello spirito, dello spirito quale universale e consapevole fare. Ripercorreremo quindi ora, rapidamente, i problemi principali dell’ontologia, per vedere come ciascuno di essi si risolva in un problema dello spirito pratico, cioè in un problema della costituzione interna dello spirito umano, non più intesa come costituzione logico-gnoseologica dello spirito stesso (se è vero tutto quanto abbiamo detto) ma bensì come costituzione della sua attività, del suo fare in generale. Che potremo anche, come abbiamo fatto, chiamare universalmente «pratico», ma purché, naturalmente, teniamo presente che tra le forme di questo fare pratico dovranno essere concretamente distinte e identificate anche le forme del cosiddetto conoscere, cioè le forme dell’attività indagatrice, della volontà di ricerca.

 [Antologia di critica filosofica (esposizioni e studi)]


Pagine collegate: