Guido Calogero: La gnoseologia dell’azione

Guido Calogero, La Logica, 1960 GIULIO EINAUDI EDITORE s.p.a., Torino

Cap. XXII

Come s’è visto, la gnoseologia vichiana (specialmente nella sua forma più matura, di teoria della conoscenza storica) si presenta come un’applicazione del principio secondo cui la conoscenza è un fare, anzi un rifare quel che fu fatto. In essa quindi si considera, sì, la verità come risultante dell’azione del pensiero, ma questa, a sua volta, in tanto ha verità in quanto si adegua ad una precedente azione dello spirito stesso. Il principio dell’attività, di conseguenza, non vi è propriamente costitutivo della verità della conoscenza, perché questa dipende piuttosto dalla corrispondenza tra l’attività ricostruttiva dello storico e l’attività immediatamente costruttiva di colui che ha agito.

La cosa appare ancor più evidente se distinguiamo le res gestae dalla historia rerum gestarum, cioè se distinguiamo il significato oggettivo da quello soggettivo nel concetto di storia. «Storia» è infatti, nell’uso corrente, tanto ciò che è accaduto, quanto la nostra conoscenza dell’accaduto. Se distinguiamo questi due aspetti, possiamo dire che la particolare caratteristica della concezione vichiana sta nell’aver messo in chiaro come il valore della historia rerum gestarum, cioè della storia in senso soggettivo, consiste proprio nel possesso di quel momento di creatività, che è d’altra parte costitutivo delle res gestae, cioè della storia in senso oggettivo. Ma questa corrispondenza (s’è visto) rinvia a sua volta al motivo dell’adeguazione: si ha infatti un’adeguazione del fare storiografico al fare storico, onde la verità del fare storiografico è del tutto dipendente dalla sua identità col fare storico. E ciò vale anche per ogni possibile rielaborazione della dottrina vichiana, che non ne abbandoni il generale assunto, e cioè per ogni considerazione della storiografia come tale che debba intendere il passato quale esso realmente fu, se anche, per intendere passato quale esso realmente fu, essa debba ricostruirlo.

Ma vediamo invece, ora, come la questione si presenti sul piano di una di quelle che abbiamo più propriamente chiamate, al termine del capitolo precedente, gnoseologie dell’azione. Esempio classico di queste è, s’è già detto, la gnoseologia kantiana. Qui la situazione è diversa da quella prospettata dalla gnoseologia vichiana. La diversità sostanziale consiste nel punto, che non c’è un fare obiettivo, storico, rispetto a cui intervenga il fare storiografico, allo scopo dell’adeguazione ricostruttiva. Nella gnoseologia kantiana il fare è essenzialmente unico: è il fare del pensiero in quanto conoscente, rispetto al quale non esiste un fare antecedente, che ne costituisca il modello, il termine di adeguazione. Non c’è nella gnoseologia kantiana un processo, poniamo della intuizione sensibile o della conoscenza intellettuale, rispetto al quale la conoscenza sensibile o la conoscenza intellettuale descritte nella Critica della ragion pura stiano nella stessa situazione in cui il ricostruire storico in senso vichiano sta rispetto al costruire della storia reale. Kant pensa che ci sia una realtà obiettiva, la realtà della cosa in sé, rispetto alla quale il pensiero, mercé le forme dell’intuizione e le categorie, opera con un potere di elaborazione, che produce la conoscenza. Questa, peraltro, se è con ciò trasformazione attiva del dato, non è adeguazione ad una precedente trasformazione del dato. E’ un’opera autonoma, che è, sì, determinata da sue leggi, ma che non appare condizionata, per la sua verità, dal fatto di doversi adeguare a un precedente modo di comportarsi dello spirito stesso.

Per questo aspetto, quindi, la gnoseologia kantiana si può veramente presentare come il primo grande esempio di un’autentica gnoseologia dell’azione, antitetica all’antico principio dell’adeguazione; perché qui non c’è più una realtà (sia pure costituita, essa stessa, di azioni compiute) alla quale l’azione da compiere, cioè l’azione gnoseologica, si debba comunque adeguare. Qui non c’è che l’azione gnoseologica; giacché, se è vero che di fronte ad essa c’è una realtà, questa non è per se stessa il canone della verità, in quanto il canone risulta, invece, proprio dalla trasformazione mentale di questa realtà, dall’azione spirituale che rispetto ad essa si realizza. Così accade, p. es., nella scienza fisico-matematica della natura, che risulta, per Kant, dalla «sintesi a priori» del dato naturale – cioè della cosa in sé, del contenuto caotico della sensazione – con le forme dell’intuizione e con le categorie.

Ora, che cosa si può osservare a proposito di questa teoria della conoscenza, dal punto di vista del suo effettivo risultato gnoseologico, e soprattutto dal punto di vista di quella più generale impostazione del problema, che s’impernia sul concetto della verità? Quando Kant dice che il nostro pensiero opera trasformando la realtà, può veramente dire che questa trasformazione della realtà sia la creazione della verità?

Può, e non può, dirlo. Si tratta di distinguere i due sensi in cui la cosa può esser detta. Che la conoscenza risultante da questo processo di trasformazione della cosa in sé sia una conoscenza vera, significherà, per un verso, che essa è un’esperienza reale, effettiva, dello spirito. Che essa debba essere così caratterizzata, che quella caratterizzazione renda conto (nella concezione di Kant) della speciale natura della conoscenza fisico-matematica e comunque dell’attività più propriamente scientifica del pensiero, questo, sì, sarà vero. Questo significherà, cioè, che quel dato modo di comportarsi del pensiero è reale e necessario, e che il pensiero non può costituire la scienza della natura senza comportarsi rispetto alla cosa in sé secondo tale legge di trasformazione della cosa stessa. Questo significherà, p. es., che il pensiero non può conoscere direttamente la cosa in sé; significherà che non può conoscere per intuizione intellettuale; significherà che, se non conosce questo suo limite e pretende di considerare direttamente la cosa in sé e di uscire dall’ambito dell’esperienza possibile, cade nelle antinomie della dialettica.

Ma si potrà dire, con ciò, che la verità del pensiero è condizionata da questo procedere trasformando la realtà? Si dovrà dire, piuttosto, che il pensiero non può agire se non in questa forma, e quindi non può che trasformare la cosa in sé a quel modo. E ciò non toglie affatto che, se esso potesse sottrarsi a questa norma, che gli impone di non conoscere la realtà se non ordinandola nello spazio e nel tempo, e coordinandola con le categorie, – cioè, insomma, se non alterandola secondo le proprie leggi, – esso conoscerebbe meglio la realtà stessa. Di fatto, la realtà della cosa in sé risulta, da tutta la costruzione kantiana, non meno valida, come oggetto di verità, della realtà che nasce da ogni operazione che il pensiero compia nei riguardi della stessa cosa in sé. Questo è tanto vero, che, se non lo riconoscessimo, non potremmo neanche comprendere la verità (effettiva o eventuale) della stessa concezione kantiana. Perché la concezione kantiana sia vera, occorre infatti che non soltanto sia vero ciò che risulta dall’agire del pensiero (cioè che sia vero, per esempio, il contenuto della conoscenza fisico-matematica risultante dalla sintesi a priori), ma altresì che siano veri gli elementi della sintesi a priori, e quindi anche la cosa in sé. Se si elimina il concetto della cosa in sé, cade tutta la concezione gnoseologica di Kant: quindi è necessaria una nostra conoscenza della cosa in sé, di fronte alla quale essa cosa in sé sia altrettanto vera, quanto la conoscenza risultante dalla sua sintesi con le intuizioni pure e le categorie.

Ma c’è di più. Non soltanto la conoscenza della realtà presupposta come oggetto dell’elaborazione conoscitiva è altrettanto vera quanto la conoscenza resultante dall’elaborazione: ma la stessa conoscenza delle forme mentali che operano questa elaborazione è ugualmente vera, nonostante che essa non dipenda certo, a sua volta, da un’attiva elaborazione. E questa osservazione è anche più grave della precedente. Quanto, infatti, al nostro avere un’idea della cosa in sé, antecedente al processo di trasformazione che ne opera il nostro pensiero, noi potremmo anche dire che questo è il punto oscuro della concezione kantiana, e che la miglior verità della sua gnoseologia è venuta in luce solo dopo l’abbandono del concetto della cosa in sé. Ma per quanto riguarda la nostra conoscenza delle intuizioni pure o delle categorie, noi non possiamo certo (almeno su questo piano) auspicarne l’eliminazione; e d’altronde è chiaro che essa non si produce in quanto, nei rispetti di tali intuizioni o categorie (p. es. lo spazio, il tempo, la causalità), noi operiamo con quella medesima attività trasformatrice che si realizza invece quando, mercé lo spazio, il tempo, le categorie, noi modifichiamo la realtà in sé e la traduciamo in verità fenomenica.

Sia dunque rispetto ai presupposti obiettivi della conoscenza, cioè alla cosa in sé, sia rispetto ai presupposti soggettivi, cioè a quelli che Kant chiama le condizioni trascendentali della conoscenza stessa, in tanto la conoscenza filosofica ha una verità per Kant (come per chiunque si ponga dal suo punto di vista) in quanto non obbedisce alla gnoseologia dell’azione, ma alla gnoseologia dell’adeguazione. Se infatti, di fronte alla categoria della causalità, noi ci comportassimo nello stesso modo in cui, mercé la categoria medesima della causalità, ci comportiamo di fronte alla non ancora causalizzata cosa in sé, noi non comprenderemmo più, nella sua autentica natura, la stessa categoria della causalità, perché la trasformeremmo così come trasformiamo la realtà della cosa in sé, traducendola dalla sfera noumenica in quella fenomenica. Altrimenti, ammesso anche in questo caso il principio che la verità dipende dall’effettivo elaborare e trasformare, che il pensiero attua rispetto alle cose, noi dovremmo dire che tanto ci sarà di verità nel nostro concetto di questo trasformare, quanto più esso sarà stato il prodotto dell’attività trasformatrice del nostro pensiero di gnoseologi!

Questa è dunque la difficoltà fondamentale, a cui va incontro la gnoseologia dell’azione. Di fatto, ovunque sia data una realtà, e sia dato insieme un pensiero che si comporti attivamente rispetto a questa realtà, noi non potremo non ammettere che questo elaborare conoscitivamente la realtà è un alterarla, e che questa alterazione non è veramente conoscibile se non da un pensiero che conosca sia quella realtà, sia questa attività alteratrice, senza alterare esso stesso né l’una né l’altra. Un’attività elaboratrice e quindi alteratrice del dato può infatti esser concepita e asserita esistente solo se si conosca questo suo alterare come un concreto modificar qualcosa, che non è modificato prima ed è modificato poi: e che perciò dev’esser conosciuto, prima e poi, senza esser modificato a sua volta dal pensiero che lo conosce. Per asserire, dunque, una gnoseologia dell’azione, bisogna disobbedire alla sua legge nell’atto stesso in cui la si asserisce.

Anche in seno alla gnoseologia dell’azione noi vediamo, così, risorgere la gnoseologia dell’adeguazione, come fondamento d’intelligibilità della stessa gnoseologia dell’azione. E il fatto che essa così risorga comporta, naturalmente, una conclusione scettica, o almeno relativamente scettica, rispetto al valore della conoscenza che procede modificando. Si sentirà invero come un triste destino il fatto che il pensiero non possa concepire cose se non trasformandole: e se ci si consolerà pensando che tale è la legge del pensiero universale, a cui non può non adeguarsi il nostro pensiero d’individui, ecco che, ancora una volta, il principio dell’adeguazione sarà stato determinante. D’altra parte, c’è almeno un pensiero che conosce il suo oggetto senza trasformarlo, ed è (come abbiamo veduto) il nostro stesso pensiero di gnoseologi, la nostra coscienza presente. Donde una scissione dello spirito conoscitivo in due parti, l’una autrice della gnoseologia e franca dalle sue leggi, l’altra oggetto della gnoseologia e perciò ridotta in una condizione di dipendenza, in quanto costretta nei limiti che invece il pensiero gnoseologizzante non rispetta.

Si può bensì, a questo punto, dire che tutto ciò ha luogo solo in quanto, nella gnoseologia kantiana, resta il concetto della cosa in sé: perché solo dall’idea della cosa in sé, cioè dall’idea di un residuo obiettivo di realtà rispetto a cui il pensiero opera trasformando, derivano tutte le difficoltà. Noi dobbiamo invece (si dirà) correggere ed approfondire la verità della gnoseologia kantiana, sostituendo al concetto dell’azione come trasformazione il concetto dell’azione come creazione assoluta. La creazione infatti si distingue in generale dall’azione proprio in quanto ogni azione presuppone una realtà e la trasforma, mentre essa è la creatio ex nihilo, che non presuppone niente e appunto perciò si presenta come la forma caratteristica dell’assoluto fare divino. Se quindi anche il pensiero si manifesterà realmente quale creatio ex nihilo, quale assoluto creatore, le difficoltà che si presentavano nella concezione kantiana non avranno più luogo.

Questo è il motivo dominante del pensiero gnoseologico postkantiano, che perciò tende, dal tipo della gnoseologia dell’azione, a quello della gnoseologia della creazione. Si tratterà allora di vedere se questa gnoseologia della creazione permetta di sfuggire alle difficoltà della gnoseologia dell’azione, e soprattutto se in essa non torni a manifestarsi, ancora una volta, il tacito e contraddittorio presupposto della gnoseologia dell’adeguazione.

 [Antologia di critica filosofica (esposizioni e studi)]


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