martedì 7 ottobre 2014

L'atto puro e noi

L’attualismo vuole essere la visione del mondo come realtà che si realizza nell’atto concreto del pensare. Ciò vorrebbe dire che il principio del tutto non è in un lontano e inaccessibile abisso, ma presso di noi, anzi in noi stessi. Qui, dentro di noi, è il principio dell’essere e della vita, della natura e della società, dell’assoluta dignità della coscienza e del dovere radicale verso se stessa, di ogni miseria e abbrutimento e di ogni elevazione e sublime sacrificio, di ogni profondo sentimento e fervida passione come di ogni aridità e scetticismo, di ogni fede che ci slancia oltre ogni limite e di ogni illuminazione in cui comprendere il mondo nell’esercizio dell’intelligenza.

Ma la consapevolezza di questo valore del pensiero, non è per l’attualismo l’effetto di un facile entusiasmo o il prodotto di una fede generica ed esaltata nell’intelligenza dell’uomo, bensì una sofferta conquista - non definitiva, e vera soltanto nel suo rinnovarsi - attraverso l’esercizio critico del pensiero sulla propria evoluzione e la fatica del duro lavoro logico. L’attualismo infatti si sente erede e insieme continuatore della speculazione precedente e in particolare di quell’aspetto principale di essa secondo il quale di volta in volta si cerca di decidere il carattere fondamentale della realtà: carattere che poi, anche se non sempre esplicitamente espresso, ma sempre sotteso ad ogni concezione, stabilisce l’orizzonte in cui ogni altro aspetto del reale si disegna nell’effettività del sapere.

(Da "Preamboliin Cogitazioni Attualiste Francesco A. Muscolino, Roma 2014)


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martedì 23 settembre 2014

L’esperienza pura

Se il concetto del conoscere non è dunque per l’attualismo contemplazione del reale, un prendere nota di quanto starebbe “in presenza” del pensiero, come un dato già pronto per l’osservazione senza che il pensiero stesso intervenga al suo costituirsi nell’attualità dell’apprenderlo, bensì è realizzazione di ciò che, appunto perché in atto di costituirsi, si viene anche conoscendo, ciò allora significa che per l’attualismo l’atto in atto del pensiero, nella sua totalità concreta, non è “coram re”, ma “in re”, anzi “ipsa res”, se intendiamo che la stessa cosa a sua volta si risolve tutta nell’apprendersi facendosi. Né ciò può intendersi come il dissolversi della cosa, presa come dato, dentro l’astratta intenzionalità del pensare, né come il dissolversi di questa in quella, poiché ciò in cui l’una e l’altra si risolvono è invece la loro sintesi, dove c’è la cosa perché viene in atto pensata e dove l’atto del pensiero si esercita effettivamente perché la cosa viene appresa nell’esser costruita. Dove perciò l’intenzionalità soggettiva e l’inerzia dell’oggetto non sono che degli astratti di un concreto che non sta da una parte o dall’altra del rapporto e neanche suddiviso in due parti, bensì nell’integrità di esso, dell’esperienza in atto, non riducibile al suo contenuto o alla sua forma, né alla giustapposizione estrinseca e materiale dei suoi elementi.

E dunque ora non c’è più da una parte il pensiero che racchiude in una visione unitaria ciò che dall’altra parte, nella realtà, si troverebbe sparpagliato nel suo atomistico isolamento, bisognoso ancora di un’aggregazione non estrinseca nell’organismo del reale. Ma c’è la realtà molteplice che, appunto perché molteplice, è intrinsecamente relata e, perché attualmente relata, non riconducibile a monolite amorfo e cieco di se stesso. Non c’è più l’individualità astratta bisognosa di una legittimazione che non può cercare, seppure inutilmente, se non fuori di sé, ma un individuo che nel proprio volere obiettivo e universale, nel suo bisogno di giustizia e verità per tutti, si sa anche e soprattutto individuo universale. Né c’è libertà bisognosa ancora di una legge che dall’esterno la guidi e quindi la limiti violentandola, ma libertà che consapevole dell’inderogabile necessità di sé stessa si sviluppa in una propria interiore legge che affranca e libera, in un imperativo interiormente necessitante e quindi libero, dove la libertà diviene dovere verso se stessi e garanzia vera e unica dell’esercizio della legge in cui essa stessa si concreta. Né c’è diritto che non sia esso stesso e innanzitutto dovere, non godimento passivo di un bene egoisticamente ricevuto, ma conquista sofferta della propria non barattabile dignità.

(Da "Preamboli" in Cogitazioni Attualiste, Francesco A. Muscolino, Roma 2014)

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sabato 20 settembre 2014

Uno sguardo retrospettivo

Quando si nomina l’idealismo si pensa subito, e purtroppo non soltanto da parte di chi sia profano di filosofia, ad una concezione in cui si viene a negare valore alla realtà per chiudere invece il pensiero all’interno delle sue più o meno arbitrarie ed astratte evoluzioni. Il contrario è però vero! Bisogna infatti dire subito nella maniera più categorica che nella decisione tra realismo ed idealismo non è in gioco la concretezza della realtà, nel significato ampio e generico che si dà a questa parola, ma soltanto lo schema esplicativo della sua giustificazione, anche se poi a seconda dello schema utilizzato discende un preciso concetto di essa.
Se ci fossero ragioni immediatamente e dimostrativamente evidenti per sostenere la tesi del realismo, ovvero se si potesse razionalmente dimostrare l’esistenza di una realtà che pur essendo assolutamente “altra” dal pensiero fosse tuttavia tale da mostrarsi ad esso, e cioè a noi, senza peraltro che ciò avvenga attraverso un qualche rapporto tra l’uno e l’altra che metta in discussione l’assoluta separazione di ciascuno di essi, allora non solo l’attualismo, bensì ogni forma di idealismo, antico e moderno, non sarebbe mai sorta. Tutta la filosofia avrebbe fondatamente professato questa tesi, che viene spontaneamente suggerita da quella filosofia più immediata che è il senso comune. Ma l’estrema difficoltà di essa sta nella sua stessa premessa, ovvero nell’assoluta alterità presupposta in cui sono così concepiti pensiero e realtà: qui infatti l’alterità va intesa non sulla base di un sottostante e fondamentale rapporto da cui l’uno e l’altra prendano origine e che rappresenti quindi la loro unità, più profonda della loro immediata distinzione, e che alla fine sarebbe il vero pensare, l’attuale coscienza della realtà; bensì come assoluta e immediata alterità, come se pensiero e realtà potessero effettivamente esistere l’uno senza l’altra, senza che l’uno implichi nulla dell’altra, e nondimeno accidentalmente venire a “contatto”. Il problema sta appunto nel dover dimostrare la possibilità e la natura di un simile rapporto accidentale tra due realtà poste già come non aventi alcun punto di contatto tra loro. Ma appunto, l’alterità assoluta tra pensiero e realtà, e il loro accidentale rapporto, vengono nel realismo assunti come una situazione data, che non ha una spiegazione, ma dalla quale, secondo quel punto di vista, non si può neanche prescindere. E’ quello che è stato chiamato intuito[1].
Questa posizione, paradossalmente, e contrariamente a quanto in genere si pensa, è proprio quella convinzione che costringe il pensiero a chiudersi in se stesso e a ricorrere a un idealismo soggettivistico. Accettato con un atto di fede quel rapporto assurdo, se la realtà esiste come altro dal pensiero, oltre e senza di esso, ciò che il pensiero conosce della realtà, ciò che conoscitivamente può far proprio di essa, non può mai essere la realtà stessa, ma qualcosa che il pensiero immagina corrispondere a qualcos’altro che ne stia fuori. Sennonché il pensiero non ha alcun modo di incontrare questo “fuori” se non ancora come immagine al proprio interno, senza mai poter raggiungere quella che è stata presupposta essere la realtà vera e propria. Il pensiero non potrà mai accertarsi che quanto esso conosce della realtà corrisponda effettivamente ad essa e lo stesso concetto di realtà in sé svanisce nel desiderio di essa. Esso rimane chiuso nelle sue congetture. Da qui il sempre risorgente scetticismo circa le ricostruzioni, per quanto formalmente logiche e coerenti, che il pensiero si avventura a elaborare riguardo ad una realtà in quel modo concepita. Così il realismo filosofico, che rappresenta la volontà spontanea di affermare la concretezza del reale di contro alle ricostruzioni posticce che possono essere fatte dalla riflessione intorno ad un’esperienza già conclusa, assumendo come schema esplicativo quello del realismo ingenuo proprio del senso comune, il quale nasce sulla base della distinzione immediata del corpo sensibile umano dalle cose empiriche, riesce piuttosto a creare tra pensiero e realtà una distanza insormontabile per una conoscenza possibile, lasciando, esso sì, il pensiero raziocinante vuoto di realtà.
Se tra pensiero e realtà ci fosse invece un vero punto di contatto, ciò significherebbe la loro sostanziale identità e renderebbe falsa l’ipotesi di partenza del realismo. Ma perché questa identità non sia la semplice giustapposizione di elementi concepiti comunque isolatamente, il che sposterebbe soltanto il problema senza risolverlo, bisogna raggiungere un modo di pensare diverso da quello proposto dal realismo.
La risposta all’empasse in cui inevitabilmente precipita il pensiero una volta assunta la posizione realistica, è stata all’inizio dell’età moderna, ed è, la scoperta da parte del pensiero stesso di una realtà tutta propria. Se la difficoltà del realismo è dovuta al fatto che il pensiero si trovi a dover conoscere una realtà in qualche modo già esistente prima che esso cominci a conoscerla, e quindi esistente senza di esso, la soluzione non potrà che consistere nel raggiungere la consapevolezza di una realtà la quale cominci ad esistere soltanto grazie all’atto stesso con cui il pensiero comincia a conoscerla. Una tale realtà è il pensiero stesso nell’atto intero ed effettivo in cui esso esercitandosi si realizza, essendo soltanto così pensiero concreto. Prima e indipendentemente dallo stabilire l’esistenza e la possibilità di conoscere altre realtà, il pensiero, che è tale solo pensando, acquista coscienza di sé realizzandosi; e quindi, nel suo atto, ciò di cui acquista coscienza non è altra cosa dall’atto stesso con cui si realizza come coscienza. Qui, per conoscere la propria realtà effettiva, il pensiero non ha bisogno di riprodursi in un’immagine che non avrebbe modo di scavalcare per controllarne la fedeltà al supposto modello reale. Il conoscere non è più contemplazione, assunzione passiva di ciò che è immaginato come esterno al pensiero, ma realizzazione di ciò che vien così conosciuto, quindi attività che esercitandosi è atto consapevole di se stesso. Nell’atto conoscitivo, preso nella concretezza intrascendibile del suo effettuarsi, realtà e conoscenza di essa coincidono. Realtà, questa del pensiero, di cui non è possibile, a differenza della realtà del realismo, dubitare, perché l’esercizio del dubbio, nel negarla la fa esistere, nel volerla mettere in crisi, la costituisce e la rinsalda.
Una volta raggiunta la concezione di una tale realtà, la cui certezza è tutta racchiusa nell’identità al pensiero che pensandola la fa essere, era inevitabile non solo che si cominciasse a pensare il mondo a partire da essa, ma anche soprattutto che la realtà in generale si finisse con il doverla concepire soltanto all’interno di quella concezione. Infatti, i tentativi successivi fatti dalla filosofia moderna nel rapportare una realtà già esistente in sé, al pensiero che la deve conoscere, misero in evidenza soltanto l’artificiosità e inconsistenza dell’intuito passivo, sia sensibile che intellettivo, come rapporto tra i due separati ordini di realtà. Al contrario, invece, i caratteri che più rappresentavano l’oggettività della realtà rispetto alla particolarità e contingenza del soggetto conoscente, si venivano svelando come costruzioni regolari di una più profonda operatività del pensiero, obiettiva e universale. Il mondo cominciò a configurarsi non più come lo scenario su cui la coscienza distende il suo sguardo impotente, ma come l’opera in atto a cui mai il pensiero smette di attendere. Cominciò ad esser chiaro che, se il mondo che conosciamo non può preesistere a noi che lo conosciamo, esso allora non può non identificarsi con il processo stesso con cui noi veniamo a conoscerlo.




[1] Un diverso concetto dell’intuito è quello per cui esso non è un rapporto dato e immediato tra due realtà presupposte come assolutamente separate, ma la coincidenza originaria di coscienza e realtà che si esplica nel processo della loro distinzione attraverso la loro sintesi (Vedi Giovanni Gentile, “Teoria generale dello spirito come atto puro”, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 1987. Cap. VIII ‘Il positivo come autoctisi’, § 5).


(Da "Preamboli" in Cogitazioni Attualiste, Francesco A. Muscolino, Roma 2014)

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giovedì 18 settembre 2014

La libertà dell'Io grande e la determinatezza dell'io piccolo

Che cos’è l’attualismo?

L’attualismo storicamente è uno dei modi, all’interno della nostra civiltà, di rispondere alle domande fondamentali che l’uomo sente urgere nella propria coscienza. Ma visto dall’interno del proprio convincimento, collocati al suo punto di vista, l’attualismo è l’affermazione filosofica più rigorosa della libertà umana che mai sia stata fatta nella storia. Esso osa, con assoluto rigore speculativo, piantare nel petto dell’uomo e nel lume della sua ragione, l’intera realtà, naturale o ideale che sia. Sa che soltanto nel gesto libero e consapevole dell’uomo vive l’assoluto valore realizzando il quale la sua libertà attinge solidità e concretezza. E perciò concepisce l’uomo non come disperso atomo pensante per caso, bisognoso ancora di un legame che lo stringa ad un patto sociale con altri atomi umani, bensì come vera universalità che nell’atto concreto e imprescindibile del pensare realizza già la società non essendo mai, nella serietà intima della coscienza, pensiero di uno solo, ma sempre pensiero di tutti e per tutti.

Che vuol dunque significare questa breve dichiarazione?

Significa che l’uomo, cioè noi stessi che stiamo qui riflettendo, possiamo comprenderci in due modi. Uno dei quali è quello per cui ci vediamo dentro la realtà, in mezzo alle altre cose, come una delle tante cose, per quanto forse la più nobile di tutte le cose. In questo senso noi siamo dentro un contesto che ci determina, in quanto ci sono cose che sono venute prima di noi e cose che verranno dopo di noi, e altre che stanno insieme a noi, che esercitano un’azione su di noi o sulle quali siamo noi ad esercitare un’azione e così via. Noi, in questo modo, siamo oggetto del nostro pensiero, come lo sono anche le altre cose che stanno insieme a noi, e come lo è l’insieme di tutte le cose compresi noi stessi.
L’altro modo di pensare noi stessi è quello per cui siamo sempre noi che dobbiamo pensare tutte le cose, compresi noi stessi come oggetti. Possiamo pensare di essere come tutte le altre cose, ma intanto siamo noi qui ed ora a pensare tutto questo. Possiamo pensare tutta la realtà, e in essa compresi noi stessi, indipendentemente dal nostro pensarla in questo momento, ma possiamo fare questo soltanto pensandola qui ed ora. Talvolta vorremmo quasi fuggire da noi stessi, uscire dalla onnipresente ragnatela del pensare per poter dire finalmente: ecco lì la realtà nostra fuori di noi, fuori dal pensiero con cui di solito siamo costretti a pensarla. Ma così facendo la stiamo ancora pensando. Il nostro fuggire da noi ci riporta sempre dentro noi stessi. Fuggire da noi possiamo soltanto rimanendo dentro di noi. Questo secondo modo di pensare noi stessi è perciò il modo per il quale noi siamo sempre l’orizzonte più ampio possibile in cui tutte le cose, e noi stessi come cosa, possono essere pensate e, in quanto attualmente da noi pensate, avere realtà. Anche quella realtà che sentiamo il bisogno di pensare oltre ogni concetto che ci facciamo di essa, alla fine dobbiamo pur pensarla, includerla cioè nel nostro orizzonte, che così svela di essere la vera e reale consistenza.
Questo secondo modo di pensare noi stessi, che comprende in sé il primo modo, è allora il modo per il quale noi siamo veramente liberi, perché non c’è cosa, bassa o alta che sia, piccola o immensa, vicina o lontana che per doverla pensare non ricada dentro l’orizzonte del nostro attuale pensare. E qui allora noi non siamo più quella piccola cosa che sta insieme alle altre cose, in interazione con esse, ma siamo il principio vivo e attivo per cui tutte le cose, e anche noi come una tra di esse, si vengono formando ed esistono. Qui, in questa intimità profonda del nostro attuale pensare, noi non pensiamo più come individui particolari di contro ad altri individui particolari, ma pensiamo come quell’orizzonte assoluto che deve valere per tutti i singoli individui che in esso appaiono.
Ma proprio per questo, guai a scambiare l’universalità e la libertà che si realizzano nel nostro pensare, con l’arbitrio e la velleità delle quali spesso ammantiamo la nostra piccola persona. Velleitari siamo infatti quando vogliamo opporci arbitrariamente al mondo che ci poniamo di fronte e che in tal modo determina e schiaccia la nostra contingente particolarità; ma siamo universalmente liberi quando nell’esercizio della nostra conoscenza scopriamo intelligibile il mondo secondo quello stesso rigore universale che sentiamo vigere nel nostro intelletto, riconoscendo quindi il mondo con tutte le sue ferree leggi come il nostro mondo. Velleitari siamo quando con la nostra individualità empirica vogliamo ergerci, tracotanti o incoscienti, di fronte alle leggi inderogabili dell’esistenza morale, sociale, politica, o naturale che sia; ma libera sentiamo la nostra interiore umanità quando invece consapevolmente operiamo a determinare quelle leggi seguendo, come forza che sboccia da noi stessi, il processo logico che le fonda, sensato e necessario nella nostra stessa coscienza e perciò da essa stessa voluto e realizzato.

Forse queste parole sono troppo poche per rendere convincente il punto di vista attualistico e dare soddisfazione a tutte le esigenze della coscienza e del pensiero, ma qui esse vogliono soltanto sollevare un dubbio stimolante e costruttivo, vogliono essere soltanto un annuncio per far intravvedere che c’è nella filosofia una prospettiva per la quale il veramente umano che c’è nell’uomo è la radice di ciò stesso che lo fa essere e lo meraviglia, che lo fa soffrire e lo rende felice, che lo costringe alle ferree leggi della vita eppure lo innalza al di là di tutte le cose, ciò per cui soltanto in se stesso può trovare i propri inderogabili doveri e la propria assoluta libertà.

Comprendere poi questi concetti alla luce della critica filosofica, come essi possano aspirare ad una coerenza logica ed alla loro sensatezza nel contesto della storia della filosofia, significa addentrarsi un po’ di più nello studio specialistico dell’attualismo.

(Da "Preamboli" in Cogitazioni Attualiste, Francesco A. Muscolino, Roma 2014)

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martedì 16 settembre 2014

Un nuovo punto di vista

L’attualismo, sulla base delle conquiste fondamentali fatte dalla filosofia moderna, da Cartesio a Kant ad Hegel, e non per una suggestione spiritualistica, o per una concessione alla psicologia imperante, colma la distanza che la concezione comune interpone tra noi, come esseri pensanti, e il mondo che ci sta dinanzi. Detto in modo molto semplice, l’attualismo ritiene che la realtà, tutta la realtà, trova esistenza e fondamento soltanto nel concreto pensare dell’uomo.  E’ vero che in tale visione, questo pensare umano capace di tanto, non può essere identificato con i singoli uomini, in quanto essi stessi facciano parte del mondo, rimanendo, con il nascere e il morire, nel contesto di esso; ma l’attualismo ha l’ardimento speculativo di affermare che nel pensiero di ciascun essere pensante, pur contestualizzato nella situazione che è propria a ciascuno, si esprima però un unico vero e grande pensare. Ed è soltanto grazie a questo pensare, il quale si realizza tuttavia in, o meglio, realizza ogni singolo atto pensante dell’uomo, che noi ci troviamo immersi nella realtà in cui viviamo e di cui facciamo parte. Realtà che ad una prima e immediata riflessione sembra sovrastare e determinare la  nostra fragile piccolezza di esseri viventi, ma scrutata da vicino mostra invece la sua intimità al nostro pensarla perfino quando più s’impone nella logica ferrea delle sue necessità più dure e stringenti. Ciò che poi risponde ad un’aspirazione recondita dell’animo umano e dell’umana ragione, quella cioè di potersi rendere conto della realtà come la nostra propria realtà in cui immediatamente sentiamo di vivere e di operare. E come d’altra parte sa l’uomo più semplice e sappiamo tutti, quando non ci sentiamo distaccati dal mondo a chiederci cosa esso sia, ma ci immedesimiamo nell’attualità della vita a risolvere il problema che ci preme e a svolgere l’impegno che soddisfarà le nostre esigenze.

(Da "Preamboli" in Cogitazioni Attualiste, Francesco A. Muscolino, Roma 2014)

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venerdì 12 settembre 2014

Attualismo: una presentazione

Filosofia dell'assoluta interiorità del reale alla coscienza, l'attualismo, in continuità con il moderno idealismo, è la concezione secondo la quale il nostro pensare, lungi dal venire inteso come la funzione mentale di un essere contingente qual è l'uomo naturalmente considerato, in mezzo agli altri esseri e alle altre cose, viene invece assunto come attività universale a fondamento di tutta la realtà, sia quella naturale e sensibile che quella sociale, etica ed essenzialmente spirituale.   
Una simile concezione tuttavia, che alla considerazione comune e più superficiale potrebbe apparire paradossale, trova invece la sua giustificazione e sensatezza - al di là dell'assenso che poi a ragion veduta si può o meno ad esso accordare - all'interno della storia delle idee nella quale il pensiero stesso ponendo e risolvendo i problemi è andato sempre più approfondendo la coscienza di sé. E' vero però che il punto di vista dell'attualismo, rompendo nel modo più rigoroso possibile con ogni realismo, implicito o esplicito che sia, e che si annidi in ogni diversa considerazione delle cose, importa una trasvalutazione dei problemi e dei principi fondamentali dell'esistenza fino a superare ogni sapere tradizionale e comune, tanto da poter talvolta suscitare quell'idea di assurdità e insensatezza.
L'uomo vivendo conosce la realtà in un'esperienza varia e complessa, percependola nel proprio sentimento, scandagliandone i vari aspetti attraverso l'intelligenza, rappresentandosela secondo le più recondite esigenze e il grado di sviluppo e coscienza di volta in volta raggiunti. Tuttavia, nel prendere atto di questa esperienza in modo più consapevole e farsi di essa una rappresentazione concettuale, l'uomo è portato, almeno in un primo momento, a considerare del rapporto conoscitivo soltanto l'aspetto oggettuale per cui la realtà si presenta come esterna ed indipendente dalla conoscenza empirica umana e l'uomo stesso soltanto un particolare contingente nella totalità di essa. Per conseguenza, in questa rappresentazione è l'essenzialità e profondità dell'esperienza umana a scomparire, a ridursi a semplice rapporto empirico non necessario all'essenza del reale. Se la realtà esiste già ed è completa nel suo valore senza la necessità dell'uomo, o meglio di ciò che è propriamente umano nell'uomo, allora sono l'umanità dell'uomo, la sua opera, la sua libertà e creatività ad essere insignificanti e senza valore nel seno della realtà stessa; riducendosi così l'uomo ed il suo comportamento a fatti determinati estrinsecamente da parte di ciò che è ad essi esterno. E la storia, che è libera costruzione del mondo umano e di ciò che per l'uomo ha valore, in cui soltanto peraltro ha senso parlare di realtà, dovrebbe in tal modo ridursi per l'uomo alla presa di coscienza del proprio disvalore, come racconto del proprio errare per l'incapacità di attingere ciò che gli è presupposto come estraneo. Addirittura lo stesso concetto di valore diventerebbe assurdo, con la conseguente caduta della morale e della religione, poiché sarebbe impossibile per l'uomo vedere in qualsiasi cosa stia fuori dalla propria umanità, ciò per cui dovrebbe valere la pena di sacrificarsi e in cui credere. Ma può una simile realtà accamparsi veramente di fronte al pensiero umano che la pensa? Può veramente il pensiero oltrepassare se stesso per attingere in qualsiasi modo qualcosa che ne stia fuori?
Già nell'età classica lo scetticismo si era affacciato con potente coscienza filosofica a tale interrogativo. Poi il cristianesimo, gettando un ponte tra uomo e Dio, realtà tenute invece separate dalla cultura precedente, concepì la realtà spirituale non più come un dato esterno all'uomo, bensì come regno da instaurare con la volontà universale che non è quella dell'uomo empirico, ma quella dell'uomo che si solleva all'universalità del volere divino. Così, grazie a tale fecondo lievito, nell'età moderna, raggiunta una più matura consapevolezza sull'uomo e la realtà, si è fatta strada e si è imposta una nuova concezione secondo la quale il pensiero è esso stesso realtà universale e totale, realtà che non dev'essere più ricercata al suo esterno, ma che invece nell'assoluta libertà del proprio realizzarsi il pensiero continuamente accresce e approfondisce.
In tale movimento di pensiero che culmina nell'idealismo moderno, la peculiarità dell'attualismo è quella di considerare l'attività universale del pensiero non distinta e sovrapposta all'atto pensante umano, bensì con questo coincidente: il vero pensiero è l'atto che si realizza mentre pensiamo e questo pensare in atto è il vero principio che sorregge il tutto.
Così la sfida che è insieme il grande fascino dell'attualismo, è quella di dar vita ad una visione nella quale venga “umanizzata” ogni cosa, dove l'uomo vincendo la propria empiricità e portandosi a livello dell'universalità del pensiero, non abbia più esterna a sé alcuna realtà che lo condizioni e lo alieni, e grazie alla quale possa così trovare in se stesso la radice di ogni principio che dia valore e consistenza alle proprie azioni e le ragioni profonde del proprio esistere. Umanizzazione che non riduce la libertà che è possibilità di scelta insita nella realizzazione del proprio universale valore, ad astratto arbitrio che sarebbe possibilità di scelta nell'indifferenza di valori ad esso presupposti; né riduce la personalizzazione della verità che è continua costruzione critica di un valore assoluto avvertito essere sempre di tutti e per tutti, al relativismo che chiuderebbe invece il singolo individuo nell'isolamento della propria egoistica particolarità; né scarna il sentimento universale del vero alla estrinseca necessità della legge. Umanizzazione che non è perdita del divino, anzi la prova più certa e sicura della sua esistenza, laddove è dentro il proprio atto umano che l'uomo avverte quell'assoluto alla cui presenza non può in alcun modo sottrarsi e del quale, come hanno sempre mostrato pure i grandi santi e profeti, invano cercherebbe fuori di sé quel valore e significato che possono risiedere soltanto nell'intimità del proprio travaglio interiore.

(Da "Introduzione" in Cogitazioni Attualiste,  Francesco A. Muscolino, Roma 2014)

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