Emanuele Severino: L'attualismo di Gentile

 Emanuele Severino, "La filosofia contemporanea", 1986, 1992 RCS Rizzoli S.p.A. Milano


L'IDEALISMO ITALIANO - Cap. XII


3. L'attualismo di Gentile

a) Attualità e trascendentalità del pensiero

Giovanni Gentile (1875-1944) propone il centro del suo attualismo rifacendosi a Berkeley: «La realtà non è pensabile se non in relazione con l’attività pensante per cui è pensabile; e in relazione con la quale non è soltanto oggetto possibile, ma oggetto reale, attuale di conoscenza».

L’”attualismo” gentiliano concepisce rigorosamente questo principio, alla cui altezza lo stesso Berkeley non è riuscito a mantenersi. La realtà non è soltanto oggetto “possibile”, ma oggetto attuale del pensiero, che è il pensiero umano e non un pensiero trascendente. Pensare che la realtà sia esterna al pensiero è contraddittorio ed è un’operazione nella quale ci si forma l’idea della realtà, dimenticando l’idea in cui la realtà è pensata. L’”idealità del reale”, rigorosamente concepita, è cioè il principio fondamentale dell’idealismo attualistico.

Tale principio non consente la distinzione (cui Berkeley perviene – FM, XI, 6) tra il «pensiero che pensa attualmente il mondo» e il «Pensiero assoluto, eterno, trascendente le singole menti». Infatti, rispetto al pensiero umano – rispetto cioè al pensiero che pensa attualmente il mondo -, quel “Pensiero assoluto” si trova nella stessa situazione in cui si trova la natura materiale esterna al pensiero: di essere qualcosa che, da un lato, limita il pensiero e lo riduce a essere una parte che ha al di fuori di sé altre parti della realtà; e che, dall’altro lato, è pur sempre pensato e che quindi, pensato come qualcosa di esterno al pensiero, è un concetto contraddittorio.

Dal punto di vista empirico, incapace a cogliere il senso trascendentale del pensiero, si può dire che il nostro pensiero non pensa tutto il pensabile, e che quindi è finito, chiuso entro certi limiti del tempo e magari dello spazio, e che dunque si può pensare che qualcosa sia, senza mai essere stato pensato, e che quindi gran parte della realtà sfugge al pensiero. Ma questo pensiero che viene pensato come oggetto determinato, finito e parziale, è l’io empirico, non l’Io trascendentale, cioè il pensiero pensante che assume come contenuto il rapporto tra questo pensiero finito e la realtà che lo trascende: il pensiero pensante è il pensiero trascendentale (= Io trascendentale), cioè il pensiero che non può essere trasceso, perché è esso a trascendere ogni contenuto parziale e finito (sia pure, tale contenuto, la stessa rappresentazione che assume come oggetto il pensiero).

Del pensiero trascendentale non si può chiedere quale sia la sua origine, perché tale origine sarebbe daccapo qualcosa di esterno ad esso. Non si può dare una “spiegazione” del pensiero trascendentale, perché è esso la fonte di ogni spiegazione e la condizione di ogni esperienza. Il pensiero trascendentale non può diventare un oggetto determinato (finito) del pensiero, perché è il soggetto di ogni oggetto, “spettatore” di ogni spettacolo, e non è mai “atto compiuto”, cioè finito, ma “atto in atto”, che è la nostra stessa soggettività, è noi stessi; e appunto perché non è atto compiuto, finito, oggettivato, ma atto in atto, attualità, esso è intrascendibile. Ogni tentativo di definire, cioè determinare, ridurre a contenuto finito il pensiero trascendentale è destinato a fallire, perché «la sua attività pensante non è quella che definiamo, ma lo stesso pensiero che definisce» [La filosofia contemporanea, cap. XII, §3]

 

b) Idealismo e distruzione degli immutabili

Proprio perché non ha nulla fuori di sé, il pensiero attuale è il “creatore” della realtà. Per la filosofia antica – rileva Gentile – il pensiero, a rigore, è niente, perché ha tutta la realtà fuori di sé; la filosofia moderna esprime, «con ogni discrezione», l’esigenza che anche il pensiero sia qualcosa; senonché, poi, approfondendo il senso di questa esigenza, la filosofia moderna si rende conto che il pensiero non può essere semplicemente qualche cosa, ma è anzi la stessa “totalità” o Realtà assoluta, e dunque è lo stesso principio creatore della realtà, l’anima, l’essenza stessa del divenire.

Gentile mostra infatti, con particolare rigore, che, proprio perché il pensiero è divenire, incremento della realtà, proprio per questo non può esistere una realtà esterna indipendente dal pensiero: tale realtà, infatti, conterrebbe già tutto in se stessa e quindi non potrebbe ricevere alcun incremento dallo sviluppo del pensiero, e dunque tale sviluppo sarebbe una mera apparenza e, in definitiva, qualcosa di inconcepibile. Ma siccome il divenire, lo sviluppo del pensiero è la stessa originaria evidenza, che sta alla base di tutto il sapere, dunque non può esistere alcuna realtà esterna al pensiero.

Nell’attualismo gentiliano il principio idealistico della contraddittorietà del concetto di una realtà esterna al pensiero si presenta cioè indissolubilmente unito alla consapevolezza che la realtà esterna al pensiero è la forma emergente dell’immutabile epistemico-metafisico che rende impensabile e veramente apparente il divenire – la cui esistenza è peraltro la stessa originaria e fondamentale evidenza del sapere umano.

Ma oramai, con l’idealismo, il divenire è l’evidenza originaria solo in quanto sia inteso come pensiero, e anzi come pensiero attuale: «Mirate con fermo occhio» scrive Gentile «a questa vera e concreta realtà che è il pensiero in atto; e la dialetticità [cioè il divenire] del reale vi apparirà evidente e certa come certo e evidente è a ciascuno di noi l’aver coscienza di ciò che pensa». Se il divenire è inteso, alla stregua del realismo, come qualcosa di esterno e indipendente dal pensiero, il divenire si irrigidisce e si trasforma in un oggetto statico, immutabile, in cui tutto è già contenuto, anche quando ci si immagina (come accade nella filosofia tradizionale) che gli elementi di tale oggetto si realizzano in uno sviluppo temporale. Ma una volta che il divenire è concepito come il processo stesso del pensiero, «allora nulla di più evidente di quell’essere che non è, e di quel non essere che è, in cui la categoria del divenire consiste».  Solo come pensiero il divenire è libertà, novità, imprevedibilità, creazione incessante.

 

c) Morte e immortalità

Ma il pensiero è l’essenza dell’uomo, che dunque, come pensiero attuale – come Io trascendentale, non come io empirico -, contiene sì in se stesso il divenire, ma è anche al di sopra del divenire, del tempo e della morte, e del terrore che il divenire e la morte producono.

«Se noi» scrive Gentile «empiricamente ci consideriamo nel tempo, ci naturalizziamo [ossia ci consegniamo alla natura, che è il regno del perituro], e ci chiudiamo entro certi limiti (la nascita e la morte) di là dai quali non possiamo non vedere annientata la nostra personalità. Ma questa personalità, per cui entriamo nel mondo del molteplice e degli individui naturali, è radicata in una personalità superiore, e soltanto in essa è reale» - la personalità superiore che è lo spirito, il pensiero trascendentale che «è fuori di ogni “prima” e “dopo”», in una “eternità” che tuttavia non trascende il tempo, perché è la stessa coscienza del tempo.

Il molteplice che è contenuto nell’atto spirituale è mortale, cioè «l’immortalità del molteplice (cose e uomini che, in quanto molti son cose) è nella sua eterna mortalità». Il terrore del divenire è superato dalla coscienza dell’eternità dell’atto spirituale: «L’energia che sostiene la vita è appunto la consapevolezza del divino e dell’eterno, per cui la morte e lo svanire di ogni cosa caduca si guarda sempre dall’alto della vita immortale».

 

d) Logica dell’astratto e logica del concreto

Facendo leva sul principio che il divenire autentico è lo stesso pensiero in atto della realtà, Gentile mira a “colmare l’abisso” che nel secolo XIX si è aperto tra la logica analitica aristotelica e la nuova logica dialettica di Hegel, l’una fondata sul principio di identità e non contraddizione e l’altra sul principio dell’unità dei contrari.

Si tratta di mostrare che non si ha qui a che fare con due logiche «tra loro opposte, senza possibilità di passaggio dall’una all’altra», «separate e incapaci di integrarsi reciprocamente» in un unico processo. Per l’hegeliano Gentile si tratta di «confermare  la verità della logica classica» e la sua unità alla logica dialettica, mantenendo l’atteggiamento, proprio di Hegel, che non vede nella logica «una astratta tecnica del pensare», ma il «concetto che il pensiero acquista di sé come realtà universale». Tale impresa è possibile, dunque, perché Gentile (come Croce) non vede in Hegel il negatore della logica analitica, ma il negatore della logica astratta (intellettualistica, nel senso hegeliano) di tale logica; non il negatore del principio di non contraddizione, ma del modo astratto di intendere tale principio.

Per Gentile, la grandezza di Hegel sta nella sua consapevolezza che il divenire, la dialetticità della realtà, è inconcepibile se non si identifica il divenire al pensiero, cioè se non si supera l’intelletto con la ragione – se non si supera l’intelletto, che concepisce astrattamente le cose, le isola dal pensiero e quindi le irrigidisce e le rende statiche, con la ragione «che concepisce lo spirito», cioè il divenire autentico della realtà. Ma, per Gentile, Hegel non è rimasto fedele alla sua scoperta ed è tornato a concepire la dialettica come un processo che è presupposto, esterno al pensiero in atto, e che quindi ha soltanto l’apparenza del processo e della dialetticità.

Tuttavia, il senso globale dell’unificazione, perseguita da Gentile, della logica classica – “logica dell’astratto” – e della logica dialettica – “logica del concreto” – è già presente in Hegel, per il quale «nella logica speculativa è contenuta la mera logica dell’intelletto, che può essere agevolmente ricavata da quella: non si deve far altro che lasciar cadere l’elemento dialettico e il razionale e così essa diventa ciò che è la logica ordinaria, una istoria, ossia una descrizione di varie determinazioni di pensiero messe insieme».

A proposito di questo passo hegeliano, va osservato che la “logica dell’intelletto” è la logica classica, analitica, quella che Gentile chiama “logica dell’astratto”; la “logica speculativa” è invece la logica dialettica (che corrisponde, nella terminologia di Gentile, alla “logica del concreto”): in relazione alle “varie determinazioni di pensiero” (ad esempio “concetto”, “giudizio”, “sillogismo”, “principio di identità”, “principio di non contraddizione”, ecc.), la logica speculativa concepisce l’unità di queste determinazioni, la loro relazione, cioè non le considera le une isolate dalle altre, le une accanto alle altre, semplicemente giustapposte e oggetto di una semplice “descrizione” (“istoria”), ma, appunto, le comprende nella loro sintesi.

Il rapporto, in Hegel, tra logica dell’intelletto e logica speculativa è il modello del rapporto, in Gentile, tra logica dell’astratto e logica del concreto. La logica dell’astratto pensa la struttura logica della realtà, ma non riflette sul pensiero attuale che ha come contenuto tale struttura. Pensando la struttura logica della realtà, la logica dell’astratto non può che pensare conformemente ai principi portati alla luce dalla logica classica (identità, non contraddizione, ecc.), giacché pensare è pensare un contenuto determinato, identico a sé, diverso dagli altri.

Ma proprio perché la logica dell’astratto non riflette sul pensiero attuale, il contenuto della logica dell’astratto non è il concreto, la realtà assoluta, ma appunto è l’astratto (la parte), che è quello che è in virtù del pensiero che lo pensa e che pone le parti (in cui l’astratto si suddivide) in relazione tra loro. Il pensiero è “l’attività integratrice” che raccoglie, sintetizza, unifica e quindi rende possibile la struttura logica della realtà; e la logica del concreto vede in questa attività del pensiero il divenire creatore della realtà, che afferma sì l’astratto, ma insieme lo nega come realtà presupposta al pensiero – ossia lo nega come presupposto al pensiero, ma insieme lo afferma come contenuto del pensiero. L’astratto è identico a sé; il concreto è il pensiero attuale che, pensando e creando l’astratto, lo oltrepassa e lo trasforma continuamente. Il concreto è cioè il divenire, il continuo differenziarsi da se stesso.

Questo significa che non c’è astratto (= realtà) senza concreto (= pensiero) e non c’è concreto senza astratto. Il contenuto della logica del concreto (cioè del pensiero che sa riflettere su di sé) è identico al contenuto della logica dell’astratto (la quale pensa la verità, oggettivamente considerata come indipendente dall’atto di pensare), “ma dialettizzato”, ossia messo in relazione – questo contenuto – al pensiero (e cioè al divenire), e quindi «integrato dalla negatività del pensiero pensante» - la negatività, cioè, che nega l’indipendenza della realtà dal pensiero. Ciò vuol dire che l’astratto deve rimanere, così come per mantenere acceso il fuoco che distrugge il combustibile occorre che ci sia sempre del combustibile e che questo non sia sottratto alla fiamma che lo brucia, cioè al «fuoco del pensiero che incenerisce il suo combustibile per trarne luce e calore».

[Antologia di critica filosofica (esposizioni e studi)]